Ciclismo
Ciclismo: dove andiamo senza pista?
C’era il tempo, nemmeno tanto lontano, in cui il ciclismo su strada era una questione prettamente europea, o meglio, dell’Europa “continentale”: Italia, Francia, Spagna, Belgio e Germania dominavano, con qualche sporadico inserimento da oltreoceano o da altri stati del Vecchio Continente. Nell’ultimo decennio, tuttavia, la geografia delle due ruote si è rivoluzionata: non solo l’ingresso in gruppo di corridori da ogni parte del mondo, ma anche un vero boom dei paesi anglosassoni, con Gran Bretagna, Australia e Stati Uniti-e, in misura minore, Canada e Nuova Zelanda-che stanno letteralmente soppiantando le grandi potenze europee.
Qual è il motivo? Soprattutto nel caso del Regno Unito e della terra dei canguri, è la grande tradizione in un altro ramo del ciclismo, ovvero la pista, a fare la differenza. Non che in Italia manchi questa tradizione, anzi: semplicemente, negli ultimi anni, si è smesso di investire sul settore, con pochissime strutture adeguate-come il “Fassa Bortolo” di Montichiari, mentre altre realtà storiche, dal “Vigorelli” di Milano al “Luigi Ganna” di Varese, cadono a pezzi-e tanti atleti che passano dalle categorie giovanili ai professionisti senza essere mai entrati in un velodromo. La scarsissima partecipazione italiana ai Mondiali juniores in Nuova Zelanda riflette pienamente queste difficoltà. Solamente le donne del pedale azzurro sembrano avere una maggiore predisposizione per la pista o, quantomeno, dei tecnici che le spingono a perfezionarsi anche in questa disciplina: i risultati a livello internazionale, di recente, premiano infatti in misura maggiore proprio le ragazze del ciclismo italiano, invece dei ragazzi.
La pista aiuta in svariati modi: anzitutto, abitua a viaggiare a velocità particolarmente elevate, migliorando riflessi e colpo d’occhio, facendo dunque emergere quella scaltrezza fondamentale per un ottimo sprinter; quindi, soprattutto nell’inseguimento, fa emergere le doti di cronoman dell’atleta, costringendolo a cercare una sempre più efficace posizione in sella per ottenere il massimo da questo particolare sforzo. Dunque, l’allenamento nei velodromi serve a diventare corridori completi, in grado di districarsi in tutte le situazioni e, in particolare, in quella prova a cronometro da sempre tallone d’Achille del nostro ciclismo ma quantomai fondamentale per vincere i grandi giri. Eppure, in Italia sembra che in pochi si accorgano delle potenzialità di questo settore che, oltretutto, assegna anche un ampio numero di medaglie olimpiche…
In fondo, non sarà un caso se il Campionissimo del ciclismo tricolore, ovvero Fausto Coppi, era un asso anche su pista, no?
marco.regazzoni@olimpiazzurra.com
Federico Militello
6 Ottobre 2012 at 10:41
Per quanto riguarda gli alibi, siamo i primi al mondo. Mai che si cerchi una soluzione ai problemi. Forse perché è troppo faticoso? O forse perché la situazione attuale forse fa comodo a tanti???
Gabriele
5 Ottobre 2012 at 22:36
Giusto rimarcare questo problema, se necessario fino alla noia. Una volta eravamo maestri, eravamo la culla del ciclismo. Non è ammissibile che l’Italia si sia ridotta a mera comprimaria e che nazioni senza alcuna tradizione antica ci guardino dall’alto in basso. Ma la cosa più triste è vedere una dirigenza federale che accetta con rassegnazione questo stato di cose, dando la colpa sempre ai fattori esterni senza fare un minimo esame autocritico.
Ciao a tutti.