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Rugby: le accademie sono la soluzione migliore per i giovani talenti?

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Negli ultimi mesi dal rugby sono giunte notizie che accompagnano sensazioni contrastanti sullo stato di salute del movimento italiano.
Mentre la nazionale maggiore diligentemente aveva la meglio su Tonga, teneva testa sorprendentemente agli All Blacks e metteva in seria difficoltà i Wallabies, a livello di club solo la Benetton usciva con le ossa intere dagli incontri internazionali. Le Zebre, infatti, subivano una pesante lezione dalla capolista della Premiership inglese, per non parlare della Caporetto dei nostri club in Challenge Cup.
L’impressione è quindi di un movimento che mentre, bene o male, resta aggrappato con le unghie al rugby di elite dovendo ricorrere praticamente a tutti i suoi uomini migliori, non ce la fa invece in alcun modo a tenere il passo quando a scendere in campo sono quelli che dovrebbero occupare giusto un gradino più sotto.
Qual’è, allora, il futuro della palla ovale per i prossimi, diciamo, dieci anni? Come si sta seminando? Quali sono i reali obiettivi a breve, medio e lungo termine?
Apparentemente un focolare di speranza potrebbe essere quello registratosi a Tirrenia nel fine settimana: la nazionale under 18 ha battuto niente poco di meno che la Francia. Che significato ha questa vittoria ? E’ tutto oro quel che luccica ? Proviamo a capirlo cercando di interpretare quelle che sono le linee guida per lo sviluppo del rugby proposte dalla federazione.
Sono state aperte quattro Accademie: a Tirrenia, Parma, Mogliano Veneto e Roma. L’obiettivo e quello di convogliare gli atleti potenzialmente di maggior futuro in dei centri federali dove insegnar loro l’arte del rugby.
Sì, arte. Il termine accademia stesso, largamente in uso sia in Italia che all’estero, a livello federale come di club, sta lì a ricordarci che l’apprendimento della palla ovale è un compito complesso che richiede sensibilità e competenze quasi comparabili alla pennellata di un Tintoretto o alla composizione Mozartiana.
La strada delle accademie federali ha sicuramente il pregio di dare la possibilità ad un certo numero di ragazzi di fare la vita da atleti, garantire che quelli che dovrebbero essere i nostri migliori talenti vengano quotidianamente seguiti da tecnici professionisti, in più, nel breve termine, dovrebbe garantire migliori risultati alle selezioni giovanili: è infatti ovvio come una squadra che si allena assieme permanentemente dovrebbe giocare meglio di una che si ritrova solo in occasione dei collegiali, e anche in quest’ottica credo vada letto il prestigioso risultato degli azzurrini sui pari età francesi.
Se nel breve periodo i benefici potrebbero essere evidenti, se proviamo a guardare un po’ più in là sorgono alcune domande: con quali criteri vengono selezionati gli accademici? ( L’anche fin troppo sbandierato progetto altezza non fa stare certo tranquilli ). Quali sono la considerazione e le possibilità di vestire l’azzurro degli esclusi? Come possono i ragazzi venire inseriti nei club solo la domenica allenandosi altrove? E’ giusto e stimolante “garantire” il posto in nazionale e non farlo sudare partita dopo partita?
Ma soprattutto è proficuo e rugbistico togliere ai nostri migliori talenti, negli anni più delicati della formazione, la possibilità di vivere e crescere nel club? Vivere il club è probabilmente l’esperienza più formante in assoluto per un giocatore,e non si limita all’imparare a fare un passaggio o uno scivolamento difensivo, ma è fatto di quotidianità che porta a sviluppare solidarietà, umiltà, responsabilità, ti da la possibilità di ricevere consigli da atleti più esperti e di aiutare a tua volta i più giovani, ti fa sentire l’amore per la maglia e desiderio di vestire quella della nazionale che (come dicono gli All Blacks ) sarà sempre in prestito e mai un traguardo acquisito.
In poche parole ti fa diventare rugbista. Rugbista tramite cuore e senso di appartenenza.
E in un mondo dove il know-how della palla ovale ha raggiunto un livello scientifico da laboratorio aerospaziale e dove noi partiamo indietro rispetto a tutte le prime 8 nazioni al mondo, forse – seguendo l’esempio argentino – proprio cuore e senso di appartenenza uniti alla passione e alla creatività latina potrebbero essere gli assi nella manica da giocarci alla partita dei grandi.

 

Danilo Patella

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