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Rugby: un nuovo Dominguez, missione impossibile?

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Il 2012 ovale è stato per l’ennesima volta quello delle imprese sfiorate, quello delle sconfitte onorevoli che oramai sono divenute talmente indigeste che se prima davano fastidio solo all’appassionato occasionale, ora fan venire il mal di pancia anche all’esperto più scrupoloso. Con questo non vogliamo certo sminuire i progressi fatti negli ultimi 20 anni dal gruppo azzurro conditi anche di prestigiose vittorie, da quella all’esordio nel Sei Nazioni con la Scozia, fino al momento più commovente quando abbiamo finalmente battuto gli spocchiosetti cugini francesi.

Se analizziamo però gli ultimi 20 anni da quando, dopo l’entrata nell’IRB, George Coste porta il rugby dello Stivale ad un vero livello internazionale, le “sconfitte onorevoli” sembrano veramente troppe rispetto alle partite vinte.

I motivi sono molteplici: quello principale, che non si dovrebbe scordare, è che il nostro livello di partenza è comunque il peggiore del gruppo del Sei Nazioni. Quando i bookmakers a inizio torneo stilano le quote noi siamo comunque abbonati al ruolo di outsiders. Questo indica come Parisse e soci per vincere debbano sempre fornire prestazioni sopra la media, mentre gli avversari a volte riescono ad avere la meglio semplicemente con partite buone o discrete.

Risulta evidente come per l’Italrugby sia vitale sfuttare ogni possibilità che gli viene concessa, non sprecare, essere cinici, diligentemente portare sempre  a casa il famoso macinato. Per riuscire in ciò servono tante piccole cose ma c’è n’è una più evidente di altre : la precisione dalla piazzola. Tornando al 2012, due imprese sono state solo sfiorate: a Roma contro l’Inghilterra e a Firenze con l’Australia; in entrambi i casi gli errori di Botes ed Orquera sono stati fatali. Per non tornare a quel 2007 quando a St.Etienne Bortolussi falliva l’unica vera occasione di accedere ai quarti della Coppa del Mondo.

Il problema è serio. Dal dopo Dominguez (e prima ancora con Bettarello) quando viene assegnato un calcio non riusciamo a vivere il momento con una certa serenità. La lista di chi ha provato ad essere il “salvatore della patria” è lunghissima, tra i tanti Pez, Bortolussi, Marcato, Wakarua, De Marigny, Scanavacca, Bocchino, McLean, Botes. Oggi la piazzola italiana è affidata a Orquera, Mirco Bergamasco ed eventualmente Burton. Nessuna di queste soluzioni sembra essere adeguata allo standard richiesto dal livello internazionale.

Ma allora perchè nel Paese, dove i bambini prima iniziano a calciare il pallone e poi lo prendono in mano, non si riesce a trovare qualcuno che riesca ad indirizzare un ovale tra i pali?

Ci sono vari fattori da tenere in considerazione: intanto il rugby richiede che il calciatore sia un giocatore completo. Se per assurdo bastasse saper calciare, e come nel Football Americano potesse entrare in campo uno specialista solo di quel gesto tecnico per poi uscire dal terreno di gioco, probabilmente il problema sarebbe facilmente risolto. Così non è, quindi il giocatore designato deve essere in grado di performare ad alto livello negli altri fondamentali : placcare, passare, correre ecc…  e non è assolutamente scontato che il panorama dei giocatori italiani offra sempre un giocatore così completo.

Inoltre quando anche il calciatore designato abbia un’ottima tecnica deve essere in grado di sopportare la pressione, proprio quella pressione che ti può bloccare quando tutti gli occhi sono su di te, quando dal tuo calcio può dipendere l’esito di anni di lavoro. La pressione che probabilmente ha fatto tremare la gamba di Bortolussi, Botes ed Orquera.

Dare quella pedata al pallone ovale è un gesto tecnico che può essere paragonabile al tiro libero del basket o allo swing del golf, non ci sono avversari ad ostacolarti, ci sei solo tu, la palla e il bersaglio. Devi essere capace di isolarti dal resto del modo, fare piazza pulita di ciò che ti passa per la testa, raggiungere l’equilibrio interiore di un Galiazzo o di un Campriani nei giorni migliori. Un momento che nel rugby acquisisce nobiltà assoluta tanto è che il codice comportamentale imporrebbe un rispettoso silenzio assoluto del pubblico.

Come nei gesti tecnici sopraccitati la ricetta è semplice : costruire su una base tecnica adeguata il proprio modo di calciare, quello che più si adatta alle proprie caratteristiche, un gesto con una sua routine, una ritualità, che va perfezionato con costanza e metodicità maniacale. E dopo di che ripeterlo, ripeterlo e ancora ripeterlo, cercando di perfezionare i piccolissimi particolari della propria meccanica di calcio.

Viene il dubbio che in molti club un fondamentale così importante sia un po’ sottovalutato, relegandolo spesso a qualche ritaglio di tempo prima e dopo gli allenamenti, dove magari si cimentano solo due o tre giocatori della rosa, quasi sempre senza un allenatore specifico.

Guardando al lungo termine credo che non si possa attendere il messia dal cielo, ma ci sono varie cose che si possono fare: probabilmente bisognerebbe incrementare il lavoro su questo fondamentale, facendo provare e riprovare tutti i ragazzi (non è scritto da nessuna parte che a calciare debba essere l’apertura). Creare dei tecnici specifici di questo fondamentale per l’alto livello. Fornire l’adeguato supporto psicologico a chi è chiamato a svolgere questo delicato compito a livello internazionale.

E voglio buttare lì un’idea: nel minirugby si gioca ovviamente senza porte e l’utilizzo del piede nel gioco aperto è bandito, in molti casi considerato diseducativo perchè scorciatoia per evitare il contatto, il passaggio o la ricerca della linea di corsa. Questo fa sì che molti allenatori dei più piccoli dimentichino proprio che a rugby si gioca anche coi piedi. Perchè non introdurre delle mini-porte per far allenare già i bambini su questo fondamentale? Si potrebbero poi creare dei giochi e delle piccole gare per far divertire i minirugbisti anche calciando la palla, siamo sicuri che questo non potrebbe portare dei benefici in futuro?

Insomma proviamole tutte, ma il rugby italiano ha bisogno come l’aria di un calciatore affidabile.

danilo.patella@olimpiazzurra.com

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