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‘Cogito, Ergo Sport’: un abbraccio contro la diversità

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Un rapporto d’amicizia, che sia fra uomini o fra donne, è sempre un rapporto d’amore. E in una carezza, in un abbraccio, in una stretta di mano a volte c’è più sensualità che nel vero e proprio atto d’amore.” (Dacia Maraini)

Sono molti gli eventi degli ultimi Giochi olimpici da immortalare, dal successo del campione più medagliato della storia, Michael Phelps, ad una sedicenne Ye Shiwen, capace di nuotare i 50 metri in stile libero più veloce di Ryan Lochte; c’è Lightning Bolt, che raggiunge, a tempi di record, la doppia tripletta di Ori in due successive edizioni olimpiche e, per la prima volta, un ragazzo corre con le protesi accanto ai cosiddetti “normodotati”. Ma tra tanti successi, talenti, medaglie, un gesto non è passato inosservato: il commovente abbraccio a fine gara tra il keniota Ezekiel Kemboi e il francese Mahiedine Mekhissi, rispettivamente medaglia d’oro e d’argento nei 3000 siepi.

Cosa c’è di strano? Forse la spontaneità dell’atto e la gioia del vincitore in braccio al secondo arrivato, altrettanto sorridente; magari la vista di un colosso di 190 cm con in braccio un omino che pareva la metà; sarà stato l’incontro tra un trentenne nero e un giovane bianco, ma in quell’abbraccio il mondo intero ha per un istante dimenticato il significato di rivalità, che spesso oltrepassa quello di competizione, e il sentimento di intolleranza e di razzismo, troppo frequente nel mondo dello sport.
Un abbraccio -scrive Cohelo- è un gesto antico quanto l’umanità, antico quanto quei Giochi che, dal lontano 776 a.C., continuano ad essere l’emblema di cosmopolitismo. Prima che “Campioni del mondo” si è “Cittadini del mondo”, e quell’abbraccio tra due culture, due terre, due campioni-cittadini del mondo può bastare a rendere giustizia al senso stesso di concorrere: “correre insieme”.

 

 

 

 

 

Di Chiara Mastrosani

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