Ciclismo

Carlo Clerici e il Giro della “fuga bidone”

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Il ciclismo è sempre stato una sorta di grande libro. E in questo grande libro si trova di tutto: storie di campioni che vincono e che perdono, che gioiscono e che piangono. Storie sempre ricche di intrigo e di fascino, storie di fedeltà e tradimenti, di giornate di gloria e di crisi epiche, storie rimaste negli annali e ricordate da tutti gli appassionati. Ma ci sono anche quei corridori, chiamati “gregari”, che non troveremo mai sulle prime pagine dei giornali, che non hanno mai goduto della notorietà, qualcuno per una scelta di vita, altri per dei limiti tecnici o atletici, ed altri semplicemente per i capricci del caso.

Forse solo nei racconti di qualche appassionato questi ciclisti trovano lo spazio che meritano. Un gregario passa le ore in testa al gruppo a tirare per il proprio capitano, che piova o che ci sia il sole. Un gregario fa la spola fra le ammiraglie e il plotone per portare le borracce. Un gregario è quello che cede la propria ruota o addirittura la propria bicicletta al suo leader quando questo ha avuto un incidente meccanico. E, perché no, un gregario è anche colui che marca a uomo il rivale del suo capitano, per usare una metafora calcistica.

Accade però che, in certi giorni, qualcuno di questi corridori, erroneamente definiti “di secondo piano”, corra incontro alla gloria, guadagnandosi quello spazio sempre negatogli per le più disparate ragioni. Chi va in fuga e vince una tappa di un grande giro, chi vince una  classica del Nord, chi una corsa minore. Ma ce n’è stato anche qualcuno (pochissimi per la verità) che, con una di queste azioni da lontano, spesso suicide, ha ottenuto un posto tra i grandissimi, aggiudicandosi il Giro d’Italia piuttosto che il Tour de France: le corse dei nostri sogni di bambino e che anche da grandi seguiamo con più fervore.

In tempi recenti, è successo allo spagnolo Oscar Pereiro Sio che, nella tappa del Tourmalet del Tour 2006, ha recuperato i 28′ di ritardo dal leader Floyd Landis, conquistando la maglia gialla per perderla pochi giorni dopo a vantaggio dell’americano. Quando quest’ultimo però è andato in crisi a La Toussuire, perdendone ulteriori 8′, sarebbe sembrato tutto finito. Invece no. Landis il giorno dopo ha “mangiato” cinque minuti con una grande azione e ha recuperato il resto nella cronometro finale, facendo proprio il Tour de France, prima di venire squalificato per doping, consegnando così lo scettro della Grande Boucle al sorprendentissimo Pereiro. Oppure, sempre nella corsa transalpina, Roger Walkowiak, corridore di una squadra regionale francese, si era imposto nel 1956 contro ogni pronostico. Ma noi oggi vogliamo parlare di Carlo Clerici e del suo indimenticabile Giro d’Italia.

Carlo Clerici nasce a Zurigo il 3 settembre 1929, da padre italiano, confinato come tanti altri a Lipari per motivi politici, e madre svizzera. La sua famiglia non naviga certo nell’oro, difatti sin da giovane lavora in officina ripulendo i telai delle biciclette da consegnare ai clienti. E qui, fra l’olio usato per le catene e l’olio di gomito del ragazzo, nasce la sua grande passione.

Inizia a correre diciottenne, in un mondo che lentamente cerca di uscire dal cataclisma della seconda guerra mondiale. Dopo tutta la tradizionale trafila nelle categorie giovanili, ottiene buone prestazioni nel 1951 quando, fra i dilettanti, vince il Campionato di Zurigo e il Giro dei Quattro Cantoni. Questi risultati gli valgono la chiamata alla Condor, team diretto da un campione del passato come Learco Guerra, dove nasce l’amicizia col grande Hugo Koblet. Clerici vince il GP Suisse del 1952, mettendosi già in luce come un corridore che non si tira mai indietro quando c’è da faticare.

E grazie alla regola della “doppia appartenenza” in vigore in quegli anni, corre le corse italiane del 1952 e del 1953 con la Welter, team nostrano. Ma nonostante questo, nella corsa rosa del ‘53 aiuta il suo amicone Hugo nella lotta contro Coppi, venendo meno agli ordini di scuderia. Questo gli costa il licenziamento, e dalla stagione successiva, che lo vede primo nella Lucerna-Engemlberg, gareggia solamente per la Condor dove rimarrà fino al termine della carriera, sempre più legato all’Angelo Biondo Koblet.

Ottenuta la cittadinanza elvetica, Carlo Clerici si presenta al via del Giro d’Italia 1954 con gli usuali compiti di protezione verso il suo capitano. La rivalità fra Hugo e il Campionissimo Fausto Coppi è particolarmente forte, dato il cosiddetto “sgarbo dello Stelvio” dell’anno prima. Infatti, al Giro 1953 lo svizzero era saldamente in maglia gialla, tanto che permise a Coppi di vincere la terzultima frazione con traguardo a Bolzano “per la sua gente”, visto che ormai era ritenuto fuori dai giochi per la vittoria finale. Eppure, il giorno dopo il nostro campione, affrontando per la prima volta nella storia del ciclismo il passo che divide l’Alto Adige dalla Valtellina, diede all’avversario una pesante lezione in termini cronometrici, tale da sovvertire la classifica e da aggiudicarsi quel Giro d’Italia con 1′30” di margine.

Con simili premesse  si creano i presupposti per una grande battaglia l’anno successivo. Koblet infatti promette nel 1954 una corsa dura, durissima sin dalle prime frazioni, ma nella cronosquadre d’apertura a Palermo perde 4′16” dalla celeste Bianchi del Fausto nazionale. La corsa si infiamma già nella seconda frazione, conclusasi con la vittoria di Minardi a Taormina e la crisi di Coppi, visto che Koblet gli rifila oltre cinque minuti. Tuttavia in quelle prime frazioni, non propriamente piatte come tavoli da biliardo, i due grandi contendenti non si danno battaglia come auspicato dagli organizzatori e sperato dai tifosi, lasciando spazio ai vari Defilippis, Contorno e Van Steenbergen.

La sesta tappa è la Napoli-L’Aquila, dal percorso vallonato e nervoso, ideale per una sfida tra i big. Ma anche in quest’occasione prevale un’azione da lontano, composta da cinque atleti. Il gruppo lascia fare, Coppi attende le grandi montagne e Koblet ha il fido Carlo Clerici tra i fuggitivi. La crescente latitanza del plotone fa acquisire proporzioni enormi ai coraggiosi, scattati di primo mattino; e sul traguardo abruzzese è proprio il buon Clerici ad avere la meglio, precedendo Nino Assirelli e Peeters. Regista della fuga è il direttore sportivo della Condor Learco Guerra che, dopo aver avuto il via libera del capitano Koblet, incita il brillante italo-svizzero sin sul traguardo, dove gli “assi” giungono con la bellezza di 34′ di ritardo.

Sebbene il distacco sia impietoso, la maggior parte degli addetti ai lavori non ci dà molto peso, visto che le grandi montagne sono in agguato. Passano un’altra decina di tappe, ci si lasciano alle spalle i colli appenninici, ma nulla cambia: i campioni sonnecchiano, il pubblico fischia, i comprimari vincono, e Clerici cede appena 2′30” al suo capitano sull’Abetone. Lo sconosciuto italo-svizzero si difende egregiamente nella cronometro di Riva del Garda e non va in crisi nemmeno nel tappone dolomitico di Bolzano vinto da Coppi: anche perché, durante queste impegnative frazioni si sono invertite le parti, ed è il grande Hugo Koblet a fare da gregario all’amico, “trainandolo” sulle salite più impegnative per poter continuare a cullare il sogno rosa.

Si arriva così alla penultima tappa: 222 chilometri fra Bolzano e Sankt Moritz. In mezzo il mitico Bernina, e la gente si aspetta un’impresa stile Stelvio di Fausto Coppi, che deve recuperare ancora mezz’ora su Carlo Clerici. Succede l’inverosimile: il gruppone, in lite con la direzione di corsa per questioni di soldi, scala la montagna a passo d’uomo, consegnando di fatto il Giro nelle mani di Clerici. Si stava compiendo il cosiddetto “sciopero del Bernina”, passato alla storia come uno dei gesti di ribellione più clamorosi della storia del ciclismo. Solo nel finale di tappa Koblet attacca e va a vincere per distacco sull’eterno  Bartali, senza scalfire minimamente la leadership del compagno di squadra.

Il giorno dopo, al velodromo Vigorelli di Milano, una sonora pioggia di fischi accoglie Coppi e Koblet, come del resto nelle tappe precedenti alcuni striscioni davano dei “turisti” e dei “vitelloni” ai corridori, che sembravano davvero in vacanza. Gli unici a venire risparmiati, perlomeno parzialmente, da fischi ed insulti sono i coraggiosi Assirelli, terzo nella classifica finale, e Clerici, che in classifica precede di 24′ il connazionale Koblet, aggiudicandosi così il Giro d’Italia più lungo della storia (ben 4337 chilometri totali).

Qualche quotidiano, per cercare di nobilitare quest’edizione della corsa rosa, titola: “E’ nato un campione“. Ma in realtà Carlo Clerici è molto diverso dagli altri elvetici Hugo Koblet e Ferdy Kubler: ha saputo sfruttare al meglio l’opportunità della vita, anche per una serie di circostanze irripetibili. Non è un fuoriclasse, ed è lui il primo ad esserne conscio. In quello straordinario 1954, infatti, chiude il Tour de France in dodicesima posizione a una cinquantina di minuti da Louison Bobet.

Dalla stagione successiva riprende il suo “lavoro sporco”, dietro le quinte, fra borracce e forature, tirate e cadute, come Emilio Croci Torti e Remo Pianezzi, storici gregari dell’Angelo Biondo. Vince il Gran Premio di Zurigo del 1956, una corsa che però non vantava ancora il prestigio acquisito di recente; e nello stesso anno si aggiudica anche il GP Le Locle.

Si ritira appena ventinovenne, nel 1957, dopo aver trionfato nuovamente nella Lucerna-Engelmberg. La sua vita scorre tranquilla: sposato con una ragazza che aveva salvato da una valanga, dimostra di essere un vero signore d’altri tempi, sempre pacato e disponibile anche con la stampa, elegante e ricco di dignità. Ma di quest’uomo “normale”, deceduto nella notte del 27 gennaio 2007 per un male incurabile, rimarrà sempre il ricordo di quell’epica e per certi versi assurda fuga-bidone che lo innalzò dalla fatica del gregario alla gloria del ciclismo.

foto tratta da ciclismoaruotalibera.blogspot.com

La versione originale dell’articolo è su www.sportvintage.it

marco.regazzoni@olimpiazzurra.com

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