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‘Cogito, ergo sport’: la scalata del pallavolista
“Le preghiere che non feci furono esaudite.”
A parlare è Kirk Kilgour, campione californiano di pallavolo negli anni Settanta. Quali furono quelle preghiere alle quali l’atleta si riferisce? Entrare a far parte della Nazionale di volley negli Stati Uniti? Essere il primo statunitense a giocare nel Campionato italiano? Oppure vincere uno scudetto con la sua Ariccia Volley Club, o magari il divenire secondo allenatore della Nazionale italiana.
No, Kirk Kilgour scrisse la sua Preghiera di ringraziamento in seguito all’infortunio che gli paralizzò il corpo. Dopo anni passati a saltare, Kilgour l’8 gennaio 1976 perde l’uso di tutti e quattro gli arti a causa di un cattivo movimento commesso mentre era a Roma, impegnato come Assistant Coach ad eseguire routinari esercizi di riscaldamento. Quel movimento gli procura la lussazione della quinta vertebra cervicale e, dunque, un’irreversibile lesione al midollo spinale.
Non sempre la grandezza fisica corrisponde a quella spirituale, ma nel caso dell’Angelo biondo, così l’hanno chiamato, esse coincidono perfettamente.
“Muore lentamente chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.”
Pare che Kirk Kilgour abbia preso alla lettera le parole della poetessa Martha Medeiros, decidendo di non “morire lentamente”, reagendo con coraggio e vigore ad un destino difficile da accettare. Costretto su una sedia a rotelle non ha dimenticato che “evitiamo la morte a piccole dosi ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.”
Non limitarsi a lasciarsi vivere, anche dopo che un banale incidente priva un grande atleta di tutto ciò che, fino ad allora, ha alimentato i suoi giorni, il suo sudore, il suo successo, vanificando i sacrifici di un’intera esistenza passata sui campi da gioco, è probabilmente l’atto eroico per eccellenza, l’atto che il filosofo ed economista Adam Smith avrebbe definito virtuoso e degno di lode perché “suscitando l’approvazione, unita alla meraviglia e alla sorpresa, costituisce il sentimento propriamente detto ammirazione, la cui espressione naturale è l’elogio.”
Da commentatore sportivo ad analista del volley, allenatore, scrittore e produttore, consulente sull’handicap volontario negli ospedali, la vita di Kilgour dopo l’incidente pare appena iniziata se non fosse stato per una polmonite che le sue deboli difese immunitarie non sono riuscite ad arginare. Kirk muore a Denver il 10 luglio del 2002 ma lo si ricorda ancora come un esempio unico di umanità e coraggio, umiltà e determinazione; è una roccia, anzi, una montagna. È il K2, la vetta dell’Himalaya, alta, come i successi del pallavolista californiano; ripida, come ripida è stata la vita di un uomo che ha dovuto ripartire da zero e ricostruire il senso stesso dello stare al mondo; difficile da raggiungere, come difficile è raggiungere la grandezza di un atleta, e ancor prima di un uomo, che ha fatto del niente il suo tutto; un K2 dunque, K come Kirk e K come Kilgour.
foto tratta da traumatologiadellosport.com
Chiara Mastrosani