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‘Cogito, ergo sport’: quando la passione si prende tutto

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Tanti sono i misteri che ammantano la scomparsa di uno dei più grandi pittori di sempre, il Caravaggio, e tra le ipotesi più affascinanti ci sarebbe quella della morte per saturnismo, detto anche “malattia dei pittori”, la stessa che colpì Goya, e forse anche Van Gogh, causata dal piombo presente nei colori che essi usavano per dipingere.

Morire a causa di ciò che ha dato senso alla vita è un po’ come essere uccisi dalla vita stessa.
C’è chi muore per un principio, chi per un ideale, chi per scelta. C’è poi chi muore per passione. È il 23 ottobre del 2011 quando Marco Simoncelli, il giovane motociclista romagnolo, tutto talento, carica e simpatia, perde la vita, cadendo dal suo gioiello, durante il Gran Premio della Malesia. È giusto morire a 24 anni facendo non semplicemente ciò che si è bravi a fare, ma soprattutto ciò che si ama fare?
Il nostro vantaggio è quello di sapere che Marco faceva quello che gli piaceva. Non abbiamo nessun rimpianto, pur sapendo com’è finita”. Le parole di Paolo Simoncelli, il papà del Sic, una risposta forse la danno.

Né Marco né il diciannovenne Shoya Tomizawa, pilota giapponese morto il 5 settembre 2010 durante la gara del GP di San Marino (classe Moto2), gara che non è stata sospesa per evitare, dicono, di ritardare i soccorsi, erano di certo tanto sprovveduti da non considerare quella tragica eventualità. D’altra parte è anche vero che “quando si è giovani è strano poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano” (Francesco Guccini).


Ci sono poi altri casi, come quelli di Piermario Morosini e Vigor Bovolenta, casi decisamente diversi, ma neanche poi tanto. È appena trascorso un anno da quel 14 aprile, quando Morosini, centrocampista del Livorno, orfano di padre e di madre, un fratello disabile morto suicida e una sorella anche lei disabile, viene stroncato da un malore in una partita di serie B a Pescara. Si parla di malformazione cardiaca, ma si insiste anche sui ritardi dei soccorsi ed è polemica sulla mancata presenza di un defibrillatore in tutti i campi sportivi.


Sembrava di vivere una replica della tragedia che, meno di un mese prima, colpiva il mondo della pallavolo. Era il 24 marzo quando il campione della Nazionale italiana, il “Gigante” Bovolenta, si accascia a terra a causa di una crisi cardiaca durante una partita di B2 tra il suo Volley Forlì e la Lube Macerata. Ha 37 anni e una moglie, Federica Lisi, che solo dopo due settimane scopre di essere in attesa del quinto figlio di Bovo.


Storie tragiche nate per gioco”, in tutti i sensi.
Al di là delle polemiche sulle attrezzature mediche in campo, al di là delle inchieste sullo stato di salute dei giocatori, della rabbia, dei retroscena, di gare che non vengono interrotte, del dolore di famiglie, amici, tifosi, al di là di tutto viene spontaneo chiedersi se valga la pena morire con e per la passione nel cuore, un cuore che può esso stesso tradire, senza lasciare scelta a quel punto, come se la scelta sia già stata fatta prima, nel momento in cui si è deciso di seguire il proprio sogno. Basti dire allora che “non esistono scelte giuste o sbagliate, esistono solo scelte”.

Protagora il sofista affermava che le sensazioni sono sempre vere perché “l’uomo è misura di tutte le cose”. E così anche le passioni non sono mai sbagliate, non lo sono per chi sfreccia in pista ai 300 orari o per chi vola oltre la rete o per chi corre con una palla ai piedi. D’altronde si sa, “le passioni fanno vivere l’uomo, la saggezza lo fa soltanto vivere a lungo” (Nicolas de Chamfort).

Di Chiara Mastrosani

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