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Golf: The Masters e la magia di Augusta

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Ogni golfista ha il suo personalissimo sogno nel cassetto, com’è normale che sia; la vittoria in uno dei quattro Major, la partecipazione alla Ryder Cup, un ‘semplice’ successo in un torneo. C’è una favola, però, che qualunque giocatore di golf vorrebbe vivere, un’ambizione coltivata da tutti e che, se raggiunta, se vissuta, fa raggiungere una sorta di immortalità golfistica. E’ la favola della giacca verde, la favola del Masters di Augusta.

Il primo Major della stagione è un connubio di storia e tradizioni uniche nella storia di questo sport, che lo rende il torneo probabilmente più apprezzato da tifosi e giocatori, nonché il più caratteristico. E’ l’ultimo dei Major ad essere stato introdotto, ma il fascino creato da Bobby Jones in quel lontano 1930 ha di gran lunga superato quello dello U.S. Open, del PGA Championship e del British Open. I motivi? Due in particolare.

Il Masters si disputa da sempre sullo stesso percorso, l’Augusta National Golf Club, un campo denso di magia e drammaticità sul quale si è visto di tutto e, soprattutto, dove si sono succeduti tutti i grandi campioni del golf: da Sam Snead a Severiano Ballesteros, da Arnold Palmer a Jack Nicklaus e tanti altri ancora. Per iscrivere il proprio nome in modo indelebile nella leggenda di questo sport, insomma, bisogna passare obbligatoriamente per Augusta. La storia si scrive lì, su quelle 18 buche immerse in un panorama di piante e fiori mozzafiato; un’altra peculiarità del National Golf Club, infatti, è legata al meraviglioso scenario in cui svolge il torneo, ovvero la denominazione delle buche, ciascuna con il nome di una delle varietà delle piante. Un paesaggio dolce e raffinato, a cui ben si accosta un percorso apparentemente non impossibile, ma che nasconde mille trappole. Dal tee al green gli ostacoli sono pochi, ma posizionati in zone insidiosi, mentre è intorno alla bandiera che inizia una vera e propria roulette russa. Non basta il talento nel putt, ci vuole anche una discreta dose di fortuna per eludere le tremende pendenze di ogni green, dove la pallina può cambiare traiettoria in ogni istante e pregiudicare anche pesantemente uno score. Il destino di un giocatore, però, si decide spesso nel cosiddetto Amen Corner; le buche 11, 12 e 13, tre step fondamentali per il prosieguo dell’intero torneo. Uno dei pochi ad andare sotto par in tutte e tre le buche è il nostro Costantino Rocca, che riuscì nell’impresa nel 1997, quando giunse 5°.

Veniamo al secondo motivo. The Masters, essenzialmente, è un torneo ad inviti, perché nella testa di Bobby Jones ad Augusta dovevano partecipare solo i migliori giocatori al mondo. Tuttora vi prendono parte solo un numero ristretto di golfisti, sensibilmente minore rispetto agli altri Major (circa 100 contro i circa 160) anche se si tiene conto di speciali graduatorie (primi 50 giocatori della classifica mondiale,  primi 40 della classifica americana, primi 16 classificati nell’edizione precedente del Masters, i primi 8 classificati del precedente Us Open, i primi 4 del precedente British Open, i primi 4 del precedente PGA Championship, i vincitori degli Amateur Championship americani) e non di inviti; tuttavia, gli organizzatori utilizzano alcune wild card per dare spazio a giocatori magari molto amati ma rimasti fuori, o per concedere un eventuale ultimo saluto ad un grande campione. Questa rigidità dei criteri di selezione e la possibilità di diventarvi socio solo attraverso un invito rende il National Golf Club il circolo più esclusivo al mondo e il più bramato, il che descrive al meglio cosa significhi per un golfista anche solo partecipare ad una manifestazione del genere. Indossare poi quella tanto famosa giacca verde, il simbolo del vincitore e dell’intero torneo, rappresenterebbe semplicemente l’apoteosi ed il coronamento del sogno. Perché il Masters non è un qualunque sogno nel cassetto, è il sogno.

Foto: sebwalke.blogspot.it

daniele.pansardi@olimpiazzurra.com

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