Ciclismo

Coppi e Bartali, uniti dalla sventura

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Si è scritto tanto su quei due personaggi, Fausto Coppi e Gino Bartali, entrambi simboli della rinascita italiana, capaci di infiammare le folle per lunghi anni e di distrarle dalla miseria e dalla povertà: perennemente rivali, ma mai nemici; diversissimi fra loro, l’uno simbolo di una generazione laica e l’altro dell’Italia cattolica. Tutti e due uniti non solo dalle indimenticabili imprese compiute sulle strade di mezza Europa, ma anche da un destino familiare davvero infelice. Infatti, prima uno e poi l’altro persero un fratello a causa di quelle stesse corse in bicicletta, che li hanno fatti entrare sia nella leggenda che nella storia del ciclismo.
Due tragedie che segnarono profondamente l’anima di questi campioni, che però, dopo lo smarrimento iniziale, tornarono a correre e a vincere, come prima e più di prima, anche grazie a quella eccezionale forza interiore, che qualche volta il dolore per un fratello scomparso prima del tempo può conferire. Due storie, così uguali e così diverse, che vale la pena di raccontare.

Giulio Bartali

Giulio Bartali nasce il 20 ottobre 1916 a Ponte a Ema, un borgo ai piedi della collina Fattucchia che oggi fa parte del comune di Firenze. Più giovane di Gino di due anni, è legatissimo al fratello, col quale condivide i momenti più significativi dell’infanzia e anche la stessa grande passione: quella per la bicicletta.
Papà Torello, di professione sterratore, preferirebbe che i figli si concentrassero più su qualche lavoro “pratico” invece che vaneggiare imprese sportive. Ripeteva spesso ”di nullafacenti in questa famiglia non ce ne sono mai stati”, ma le prime vittorie di Gino (e i primi quattrini portati a casa) lo convincono a lasciare libero sfogo ai sogni dei suoi ragazzi, che dunque potranno diventare corridori a tutti gli effetti.

Il loro rapporto è sincero e allegro, tant’é che Giulio chiama il fratello Nasello per via del naso da pugile rimediato da Gino dopo una bruttissima caduta in una gara giovanile a Grosseto. In quell’occasione, Gino finisce addirittura in coma, rischiando la vita.
Da giovani si allenano insieme, su e giù per le strette strade fiorentine, immaginando di essere Alfredo Binda e Learco Guerra, i due grandi campioni degli anni Trenta.  Il futuro Vecchiaccio crede realmente che il fratello sia più forte di lui, tanto da affermare, dopo le sue prime vittorie: “Presto arriverà un altro Bartali, e allora non ce ne sarà più per nessuno. Un anno vincerò io e un anno vincerà lui“.
Il 7 giugno 1936 Gino vince il suo primo Giro d’Italia: Giulio, ormai corridore dilettante di buon livello e già vincitore di sei corse in quella stagione, sale sul podio di Milano a festeggiare insieme al fratello.
Ma il destino ha in serbo uno scherzo crudele per il più giovane dei Bartali. Il 14 giugno dello stesso anno si disputa a Firenze la Targa Chiari, una gara valida come campionato regionale alla quale prende parte anche Giulio. C’è una pioggia intensa, che rende le strade viscide, favorendo le cadute degli atleti ad ogni minima imprudenza; ma non è un errore del ragazzo di Ponte a Ema a costargli la vita, bensì una tragica fatalità. Giulio, nonostante qualche problema meccanico che gli fa perdere tempo prezioso, scollina al comando in cima al San Donato, assieme al pistoiese Simoni e all’amico Corsini.
Ma intanto, lungo la discesa che riporta i corridori verso Firenze, sopraggiunge, in direzione opposta a quella della marcia dei ciclisti, una Fiat Balilla di colore nero, che investe in pieno Bartali, terzo della fila,  procurandogli fratture multiple alla spalla, al bacino e alle costole. Giulio non riprenderà più conoscenza e spirerà all’ospedale di Santa Maria Nuova due giorni più tardi, a causa di un’emorragia interna.
Nel 1959 muore il medico che lo aveva operato, lasciando una lettera per la signora Giulia, la madre dei Bartali, nella quale ammette di aver commesso un grave errore durante l’intervento chirurgico per salvare il giovane fiorentino. Per Gino è un colpo talmente duro da farlo pensare anche al ritiro, ma poi si convince gradualmente, anche grazie agli incitamenti della futura moglie Adriana, di continuare a correre. Depone sulla tomba del fratello la maglia rosa del Giro e quella gialla che conquisterà al Tour del 1938. Per molti anni, dopo ogni gara il Vecchiaccio andrà al cimitero di Ponte a Ema, anche di notte, anche scavalcando il cancello, per raccontare al fratello il resoconto della corsa.

Serse Coppi

Castellania è un minuscolo comune dell’Alessandrino, sulle colline che sovrastano il fiume Scrivia. In questo paese un po’ all’antica, dove il tempo pare essersi fermato, nascono e crescono i fratelli Coppi: prima Fausto, Il Campionissimo, classe 1919; poi Serse, nome (e grinta) da condottiero persiano, nato in quel borgo il 19 marzo 1923. Cresce umanamente e ciclisticamente insieme al fratello, del quale è prezioso compagno di squadra sin dalle categorie giovanili, e si distingue  per un comportamento quasi burlesco, da capobanda, organizzatore di tanti scherzi e tante bravate; quasi l’opposto di Fausto, noto per la sua estrema riservatezza e discrezione.
Nonostante queste differenze caratteriali, i due sono legatissimi, e dove va Fausto va anche Serse, tanto da far affermare a quel grande cantore di vita e di ciclismo che era Dino Buzzati: “Serse – ecco l’ affascinante ipotesi – è di Fausto il portafortuna, il genio benefico, il vivente talismano, come la lampada magica senza la quale Aladino sarebbe rimasto per sempre un pitocco. Chissà, forse risiede in Serse tutto il segreto del fratello campione“.

Soprannominato Oreggiatt per via delle orecchie a sventola, ha una brillante carriera da ciclista, anche se chiaramente non paragonabile a quella dell’Airone, dal quale è diversissimo anche come stile nella pedalata. Fausto è elegante, per l’appunto come un Airone, mentre Serse è  assolutamente sgraziato, quasi come un anatroccolo.
Ottiene ottimi risultati da dilettante e nel 1946 passa al professionismo, inevitabilmente con la biancoceleste Bianchi del fratello, vincendo subito la Milano-Varzì e la Coppa Andrea Boero. Ottiene una serie di onorevolissimi piazzamenti in importanti gare del calendario nazionale, come il Giro dell’Emilia e la Coppa Bernocchi, giungendo 24esimo nel Giro d’Italia vinto da Ginettaccio Bartali, del quale sarà molto amico. Nel 1947 si rompe una gamba durante la settima tappa della corsa rosa, e impiega quasi due anni a riacquisire l’antica brillantezza.

Ma è il 17 aprile 1949 che compie il capolavoro della sua carriera, per quanto in modo molto rocambolesco: sull’infernale pavè francese si corre la tradizionale Parigi-Roubaix, che vede in fuga il parigino Andrè Mahe, il belga Joseph-Francois Leenen e lo spagnolo Jacques Moujica. I tre, con un vantaggio incolmabile, sbagliano clamorosamente percorso, e sul traguardo di Roubaix sopraggiunge un nutrito gruppo regolato in volata da Serse Coppi. Dopo una buona serie di reclami e ricorsi, la giuria assegna la vittoria ex aequo al ragazzo di Castellania e a Mahe, vincitore dello sprint fra gli ormai ex fuggitivi.
Serse è soprattutto l’angelo custode di Fausto, col quale condivide tutti i grandi trionfi, a partire dal Giro d’Italia 1949 corso fedelmente al suo fianco, “esultando per le vittorie del fratello più di lui“, come ci ricorda sempre Buzzati.  Oltre alle vittorie già citate, nel suo palmarès ci sono anche una semitappa della Roma-Napoli-Roma e due circuiti belgi vinti nel 1950.

E purtroppo anche qui, come con Giulio Bartali, il destino è tragicamente in agguato. Il 20 giugno 1951 disputa, sulle strade di casa, il Giro del Piemonte: cade sui binari del tram, ad un chilometro dal velodromo di Torino dov’è posto il traguardo; si rialza, sciacquandosi la ferita alla testa con l’acqua della borraccia e conclude regolarmente la corsa, vinta dall’amico Gino Bartali, col quale si congratula sportivamente.
D’improvviso però viene colto da dolori violentissimi al capo: tuttavia, i primi sintomi non allarmano particolarmente i medici, che si accorgono della gravità della situazione solamente quando, mezz’ora più tardi, lo sfortunato Serse perde i sensi.

Viene trasportato d’urgenza alla clinica Sanatrix di Torino, e il chirurgo dispone un’operazione al cranio, ma la sacca di sangue proveniente dall’Ospedale Le Molinette non giunge in tempo: muore alle 20.32 di quello stesso giorno, tra l’incredulità e la disperazione del fratello. Viene sepolto nel cimitero di Castellania, dove pochi anni più tardi lo raggiungerà lo stesso Fausto, un Fausto che di primo acchito non sembra in grado di reagire alla grave perdita, annunciando di non voler correre l’imminente Tour de France.  Lo convinceranno a ripensarci; ma durante la Grande Boucle sarà soltanto l’ombra di quel Campionissimo ammirato in passato. Ci impiegherà qualche mese a riprendersi da uno shock simile. Però riuscirà a tornare più forte e vincente che mai, prima di quell’assurda morte per malaria che lo ricongiungerà al fratello Serse.

Un destino incredibile unisce quindi le vite di Fausto e Gino, i due campioni, i due grandissimi. Divisi dai tornanti e dalla fatica, si trovano irrimediabilmente uniti nella sofferenza, colpiti da una sorte implacabile, che ha strappato i loro fratelli più giovani, quando erano poco più che dei ragazzi.

 foto tratta da larena.it

L’articolo originale è su www.sportvintage.it

marco.regazzoni@olimpiazzurra.com

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