Ciclismo
Dal Pirata allo Squalo: l’Italia ha un nuovo eroe
C’era una volta Marco Pantani. Per tutti “il Pirata”. Quello che, quando la strada cominciava a salire, si toglieva la bandana, si alzava sui pedali e spiccava il volo verso l’infinito. Ah, quella bandana. Quanti bambini, poco più di un decennio fa, la indossavano nelle spensierate giornate estive in interminabili “Giri d’Italia” improvvisati con gli amici: la fantasia sa essere più coinvolgente della realtà. Sì, bastava una bandana per sentirsi “Pantani”, un appellativo sinonimo di amore spassionato per la bici.
Lo sfortunato romagnolo generò una passione nazional-popolare per il ciclismo che l’Italia non assaporava da mezzo secolo, dai tempi dei miti Fausto Coppi e Gino Bartali.
Quando gareggiava Pantani, una nazione intera o quasi si fermava. Ci si riuniva nelle case, nei bar, nelle piazze. Migliaia di persone in attesa delle imprese dell’amato paladino. Perché la gente non valuta il numero di vittorie, ma i modi in cui maturano. La matematica e le statistiche non appassionano, cuore e sentimento regalano l’immortalità. Il Pirata non vanta un albo d’oro stracolmo, eppure nessuno può scordare la sua doppietta Giro-Tour nel 1998, accoppiata da allora mai più ripetuta. Come dimenticare quel duello così struggente, così umano con Pavel Tonkov all’Alpe di Pampeago: una serie infinita di scatti, un lento logoramento fisico e mentale prima della stoccata risolutiva. O la leggendaria impresa del Galibier, quando con lucida follia il Pirata decise di andare all’arrembaggio a 47 km dal traguardo: freddo, vento ed una pioggia incessante non minarono in alcun modo una cavalcata senza eguali nella storia del ciclismo.
La costante ricerca di emozioni è ciò che caratterizza il genere umano. Un perpetuo inseguimento dell’anticonvenzionale, di quel quid da scolpire nella lastra della memoria. Pantani riassumeva tutto questo, issandosi ad essenza stessa del ciclismo. Il Pirata era l’orgoglio di un popolo come quello italiano che da sempre ha sentito l’esigenza di immedesimarsi nei propri miti.
La storia di Vincenzo Nibali, fresco vincitore del Giro d’Italia 2013, ricorda molto da vicino quella di Pantani. Lo Squalo è un attaccante nato, sempre pronto a lanciare la sfida in qualsiasi contesto, che sia salita o discesa. Bene o male che vada, lui ci prova, non si tira indietro. Figlio del Sud, ammalia con la sua personalità genuina. Un campione costruito nel tempo, con pazienza e sacrifici. Un esempio per tanti suoi coetanei in questo periodo di grande incertezza: coniugando talento, volontà e perseveranza, nello sport come in qualsiasi contesto della vita, alla fine si emerge.
Nibali, come Pantani, ha vinto il Giro con delle gesta già entrate di diritto nella storia. Dalla cronoscalata di Polsa, in cui ha impressionato per la sua pedalata così ben cadenzata e potente, fino all’epico assolo sulle Tre Cime di Lavaredo, dove una tormenta di neve ha accompagnato la maglia rosa sulla strada della gloria. Il destino ha voluto che sia per il Pirata che per lo Squalo, la vittoria più bella sia maturata in condizioni meteo che più di ogni altre affascinano ed entrano nell’immaginario collettivo.
Simbolo di un ciclismo che sta disperatamente cercando di scrollarsi di dosso l’incubo del doping, Nibali a 28 anni (gli stessi di Pantani quando vinse il Giro del 1998, altra coincidenza forse non casuale) guarda ora ad obiettivi sempre più ambiziosi, su tutti la conquista di quella Grand Boucle che, guarda caso, all’Italia manca dai tempi del romagnolo. L’impressione è che il siciliano abbia risvegliato l’amore degli appassionati verso il ciclismo e quel desiderio di riunirsi per rivere le gesta di un nuovo campione. Dal Pirata allo Squalo: ora l’Italia un nuovo eroe.
federico.militello@olimpiazzurra.com