Canottaggio

La Mura: “Il canottaggio italiano aveva ancora bisogno di me”

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Riportiamo di seguito una lunga intervista rilasciata al “Messaggero” da Giuseppe La Mura, tornato da pochi mesi a ricoprire il ruolo di direttore tecnico della nazionale italiana di canottaggio. Dichiarazioni crude ed a cuore aperto, tra passato e futuro. Da non perdere. 

«Basta, qui comincia una nuova èra… Furono le parole del signor De Capua quando nel maggio del 2005 si insediò come direttore tecnico del canottaggio italiano, nel ruolo che io avevo ricoperto con eccellenti risultati. E tutto il mio materiale, anni di lavoro, studi, dati sugli atleti, un patrimonio della federazione, finì tra i rifiuti di Piediluco, davanti al Centro Federale Canottaggio. Solo una parte di quella documentazione fu salvata grazie al tempestivo intervento di due allenatori». Così il dottor Giuseppe La Mura, da pochi mesi tornato alla guida del canottaggio azzurro come direttore tecnico, richiamato dal nipote-presidente Giuseppe Abbagnale, ricorda quei giorni di transizione di otto anni fa.

Ma perché la “cacciarono”? «Nella vita gli amici vanno e vengono, i nemici si accumulano. Cominciò un`opera di demonizzazione, in sottofondo. C`era un gruppo di dirigenti che da 12 anni stava all`opposizione, voleva governare e ci accusava di lavorare male. Dicevano che bisognava ridurre i finanziamenti alla squadra nazionale per supportare più le società, la base del movimento, meno interessato ai grandi obiettivi. Alcuni atleti si lamentavano perché, pur lavorando tanto, non potevano tutti essere inseriti nelle barche più competitive, e gli esclusi si schieravano contro. Poi i tecnici, che vivevano certe mie decisioni come un`imposizione e volevano mettersi in gioco. Gran parte dell`ambiente si era ormai disgregato. In questo clima, per giunta, alle Olimpiadi di Atene arrivò il peggior risultato: solo 3 bronzi. Il concorso di tutte le forze in gioco portò al cambiamento, io fui accantonato. Ma il cambiamento andò nella direzione sbagliata...».

Cioè? «In questi otto anni, per esempio, si è praticamente dimenticato quanto sia importante effettuare la misurazione antropometrica degli atleti, per vincere è fondamentale. Poi emerse la teoria che meno allenamento e meno stress offrissero maggiori chance di vittoria: io capii subito che quella scelta avrebbe potuto portare risultati disastrosi. Infatti a Londra 2012 è arrivata una sola medaglia, e fu un miracolo. Ora gli atleti, anche coloro che anni fa si lamentavano dei miei metodi, hanno capito che si doveva cambiare: in gara non riuscivano più a esprimere le loro potenzialità, si sentivano impotenti di fronte agli avversari. E rieccomi qui. Il mondo del remo voleva un ritorno al passato, ma non sarà una riproposizione tale e quale di quello che è stato, piuttosto l`adeguamento di quel metodo agli anni 2000».

Con quali obiettivi è tornato? «Tenterò di non essere ricancellato… Cercherò di creare un gruppo di tecnici che si identifichi con le mie teorie e che per il futuro diventi patrimonio della federazione. Il mio obiettivo è quello di tornare per confermare la validità del mio metodo. Soprattutto per quanto riguarda il gesto tecnico, che ha leggi biomeccaniche che non possono essere messe in discussione perché derivano dalla fisica applicata al corpo umano, e che invece sono state completamente disattese in questi otto anni in cui la conduzione tecnica federale è stata affidata ad altri. Eppure all`estero hanno imitato le basi del nostro metodo, dal punto di vista fisiologico, tecnico e tattico: la valutazione del dispendio energetico e della quantità di energia consumata in allenamento rapportata alle esigenze di gara; la tecnica basata sul grande lavoro di gambe, prevalente su altri segmenti corporei, come schiena o braccia; la partenza veloce, ora tutti partono forte, all`italiana: più della metà degli equipaggi che vincono sono in testa ai 500 metri».

Si sente più medico o tecnico? «Ho cominciato a fare l`allenatore come hobby, se penso a me come persona mi sento più dottore. Ma poi la mia diventò una sfida al mondo, e allora dell`hobby rimase ben poco».

Lei è stato definito scienziato dello sport. «In fondo non è una definizione del tutto inappropriata. Lo scienziato risolve problemi, io applico la scienza biomeccanica alla metodologia di allenamento».

A quale ct del calcio si sente più vicino? «Beh, sicuramente Arrigo Sacchi, il mio approccio tecnico è molto simile al suo. E anche lui, come me… era antipatico a molti. Ma dal punto di vista caratteriale, mi piace il modo di allenare di Antonio Conte».

Molti la considerano un duro, il lupo cattivo. Vero? «Sono molto esigente, severo direi, perché parto dal presupposto che investire sullo sport di alto livello costa tantissimo a Coni, federazioni, società e allenatori, e quindi l`atleta non può giocare, se vuole solo divertirsi deve fare altro nella vita. L`intensità del lavoro e la durezza degli allenamenti la stabiliscono gli avversari che vuoi battere e gli obiettivi che vuoi raggiungere. Più sono forti gli altri più devi faticare».

Dalla fatica al doping la strada è breve. «Penso che nel canottaggio il miglior doping sia un allenamento perfetto e una tecnica eccellente. E’ la strada giusta per ottenere grandi risultati: ai loro tempi Giuseppe e Carmine hanno battuto molti dopati. Il doping ematico può essere efficace in certi sport di lunga durata come il ciclismo, lo sci di fondo, la maratona, ma nel canottaggio la tecnica è un fattore così determinante che il doping non può aiutare. Con un`ottima tecnica si può migliorare il proprio potenziale anche del trenta per cento».

Metodo, scuola o teoria? «Piuttosto la mia è una filosofia, ce n`è una alla base di ogni allenamento che deve mettere alla prova l`organismo. C`è chi ha la filosofia del divertimento, considera che il canottaggio debba avere un aspetto giocoso e sempre gratificante, mai stressante. Ragionando così puoi anche diventare campione d`Italia e accontentarti del lavoro fatto, ma poi a livello internazionale rischi di essere nessuno».

Prima di allenare gli altri, lei si è mai allenato? «Ho smesso di remare al terzo anno di medicina, quando cominciava a farsi dura perché dovevo studiare per l`esame di anatomia. Smisi e ricominciai dopo la laurea, ma era troppo tardi per i grandi traguardi».

Che tipo di persona è il canottiere? «Quando inizia si sente inadeguato a dover imparare a remare, a differenza del calciatore che magari nasce dotato e usa i piedi come le mani. Non esiste un canottiere che si mette in barca ed è naturalmente predisposto. Il gesto è inventato, non naturale, l`apprendimento è difficile, lentamente si supera la sensazione di inadeguatezza e ci si sente più padroni di se stessi. In questo sport la potenza è applicata in maniera sensibile e non rozza, il canottiere viene visto come energumeno, invece usa la forza quasi con circospezione. Tutto questo lavoro per adeguarsi alla tecnica di voga fa diventare il canottiere modesto, arriva in alto sentendosi inadeguato. E poi basta una breve pausa e si perde la coordinazione fine. Peppe (Abbagnale, ndr), soprattutto dopo le prime vittorie, proprio non accettava che io lo rimettessi in discussione come quando era ragazzino. Io gli facevo vedere i filmati egli spiegavo che esiste l`involuzione tecnica e lui: “io non capisco, mai visto uno che impara a scrivere e poi si dimentica come si scrive….” Remare è complesso, il canottiere non può mai dire: sono arrivato».

Qual è il momento più duro della gara? «Chiunque finisce una regata è un eroe perché in quei 2.000 metri attraversi tante di quelle crisi che devi fare ricorso alle energie più recondite. A metà gara vorresti arrenderti, tornare a terra pur consapevole che poi ti vergognerai, ti ripeti che “al traguardo no, non ce la posso fare ad arrivare…”. Resisti fino agli ultimi 500 metri, dove arrivi morto, ma è proprio lì che devi addirittura aumentare il ritmo. Alla fine però provi un`immensa sensazione di liberazione. Una gara di canottaggio è un`esperienza profondamente formante».

Il talento naturale può aiutare? «Non basta. Ormai vince solo un talento ben allenato e che rema meglio degli altri. Ad essere sincero, seguire un programma di lavoro come dico io, è difficile: solo gli Abbagnale ci sono riusciti al cento per cento».

Si è mai commosso per i trionfi dei suoi nipoti? «Vivevo le loro gare come uno che fa un esame. Più che commozione provavo una sensazione particolare, quella di esser riusciti a non sbagliare. E mi preoccupavo subito del futuro: questa volta l`abbiamo scampata bella, pensavo, e l`anno prossimo come faremo? Ho avuto reazioni sempre molto razionali e poco emotive. La medaglia è un fatto emotivo, puoi perdere l`oro olimpico per un centesimo e ti può sembrare una disfatta, ma magari hai fatto una gara eccezionale dal punto di vista tecnico».

La chiamano tutti dottore, a cominciare dai suoi nipoti. «Beh, sono dottore e tutti, atleti, tecnici, amici e parenti, da sempre mi chiamano così. Ormai ci sono talmente abituato che talvolta mi trovo a disagio. Per esempio, quando scrivo una mail, ho un problema: spesso mi ritrovo a firmare “O dottore”».

Intervista realizzata da Francesco Padoa per il “Messaggero”

 

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