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‘Cogito, ergo sport’ – Michael ‘Air’ Jordan: volando alto per gioco, vinco

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“Vincere o perdere non fa alcuna differenza: è la mia sfida, ognuno ha la sua”.
(dal film Never Back Down)

Quando si è piccoli l’importante è partecipare, crescendo si impara che vincere conta, eccome se conta, e più si tenta di scalare la lunga spirale verso la vetta più vincere o perdere fa la differenza. Pare allora che il piacere del gioco sia solo una breve illusione: il tempo di appassionarsi, di diventare bravo e già quello non conta più, si trasforma in lotta in vista del risultato, in competizione, in sforzo per la vittoria. E tuttavia qualcuno riesce a sfuggire a questo circolo vizioso, mantenendo la capacità di giocare prima per se stesso, per amore di ciò che fa e soltanto dopo per la vittoria.

Michael Air Jordan

MJ: non servono aggiunte quando l’uomo in questione è “l’alieno venuto dallo spazio”, quando a parlare è Jordan, Air Jordan.
Lo chiamano Gesù in scarpette da ginnastica non solo perché il campione di basket Michael Jordan è stato per molti il migliore, ma anche perché pare non sapere cosa sia la gravità. Se la fisica fosse ancora quella aristotelica si direbbe che l’elemento in lui predominante sia l’aria perché ogni suo slancio verso i 3 punti, ogni suo passo rivolto al canestro tende verso l’alto, verso quello che deve essere il suo luogo naturale.

His Airness

 MJ dava spettacolo in campo, meravigliava il pubblico, stordiva gli avversari, e nel frattempo gli capitava anche di vincere. Quindici anni di carriera conclusi col terzo score più alto di sempre ( 32.292 punti) e la media a partita migliore della storiasei titoli NBA con i Bulls e dieci volte miglior marcatore della lega americana; due Ori olimpici e un doppio three-peat. Pare che “vincere”, per Michael Jordan, sia stato tanto importante da diventare quasi scontato, se non fosse lui il primo ad ammettere quanto spesso capiti di perdere, quante volte il fallimento colpisca persino His Airness, il signore dell’aria. 

Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto”.

Alla fine ha vinto tutto, titoli, medaglie, sponsor, riconoscimenti, ma non è solo questo il motivo per cui “come lui sulla terra non c’è nessuno” (Magic Johnson, parlando di Jordan). Tanti altri sono stati dei grandi campioni che hanno vinto molto, ma per vincere tutto c’è bisogno di qualcosa in più. Al di là dei premi, dei successi, dei trionfi, Air è stato in grado di mantenere fede alla sua vocazione, all’amore incondizionato per la pallacanestro, a quello sport che prima (e per sempre) e stato un gioco. Al suo secondo ritorno, dopo i precedenti ritiri, ha affermato:“Torno per amore di questo sport, perché non m’importa di rovinare l’immagine di quanto ho fatto finora, perché quello che ho vinto non me lo può togliere nessuno. Torno per insegnare ai giovani che mi circondano quello che serve per diventare vincenti”.

Certo, insegnare ad essere Michael Jordan non è impresa facile. Lo stesso Platone sosteneva che per diventare eccellenti non bastava un’ottima educazione o una nobile discendenza, c’era anche bisogno di doti e qualità proprie per natura. Ma c’è una caratteristica che, più che insegnata, può essere trasmessa, e non tanto a parole, quanto con l’espressione di chi entra in campo col desiderio di giocare, con la voglia di impossessarsi di quella palla e lanciarsi con lei verso il canestro, dimostrando che, in un certo senso, la vita è un gioco, se lo si sa giocare. Si può insegnare ad essere i migliori mostrando quanto bello sia vincere solo dopo aver lottato; quanto conti la classifica solo se il premio l’hai già vinto con te stesso; se a quarant’anni esci dal campo con la soddisfazione di aver passato ore ed ore a sudare e a lottare per amore e per passione e con la consapevolezza di aver passato tutta una vita a “fare le cose proprie”, secondo quel principio platonico dell’oikeiopragia, del riconoscere le proprie capacità e svolgere virtuosamente, cioè al meglio, ciò per cui si è predisposti; se poi, oltre a ciò, si vince, tanto meglio.

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