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‘Cogito, ergo sport’: Rudolf Nureyev, il divino danza per l’uomo
“Ogni uomo dovrebbe danzare, per tutta la vita. Non essere ballerino, ma danzare”.
(Rudolf Nureyev)
C’è chi nasce senza sapere cosa diventerà da grande, chi muore senza averlo mai scoperto. C’è poi chi, come Rudolf Nureyev, nasce con un’ardita quanto indubbia consapevolezza, un’innata vocazione, qualcosa che va oltre la passione, qualcosa che somiglia più ad una seconda pelle, una di quelle che non si strappano via, che sono parte di te dall’inizio e con te rimarranno fino alla fine.
“La danza è tutta la mia vita. Intrapresa questa via non si può più tornare indietro: è la mia condanna forse, ma anche la mia felicità”.
Definito il ballerino più grande del XX secolo, icona di stile, coreografo innovativo, emblema artistico della guerra fredda, figlio della Russia e Stella dell’occidente, Rudolf Nureyev non è stato solo l’étoile dei più grandi teatri del Novecento, dal Teatro dell’Opera di Vienna all’Opera Ballet di Parigi, dal Royal Ballet di Londra alla Scala di Milano; Rudy, come confidenzialmente lo chiamavano i suoi colleghi, è stato l’uomo che ha rivoluzionato il mondo della danza, ha dato la svolta epocale al ruolo del ballerino sulla scena, fino ad allora relegato in secondo piano rispetto alla donna, ed ha avuto il merito di rendere moderni i classici. Per Italo Calvino “classico è ciò che, quanto più si crede di conoscerlo per sentito dire, tanto più si trova nuovo, inaspettato, inedito”. E fondamentale è la capacità di chi riesce ad esaltarne questo valore di eterna attualità, eterna bellezza, eterna emozione. Nureyev aveva questa abilità, di rappresentare il sogno con l’eleganza, la passione con l’ardore dell’anima, lo spettacolo con la purezza e la plasticità del corpo, la vita con la dedizione e la cura del movimento.
Dice Roberto Bolle che la sua grandezza è stata quella di aver dato approfondimento psicologico ai personaggi, scavandone in profondità la vita, dando al ballerino spazio all’interpretazione, perché la danza per Nureyev non era una tecnica e neppure una semplice arte, “era il senso che davo al mio essere, era stare lì e rendere i miei muscoli parole e poesia; era il vento tra le mie braccia; era il mio credo, il mio bisogno, le mie parole che non dicevo, la mia fatica, la mia povertà, il mio pianto”.
Fin da piccolo si era avvicinato alla danza perché “gli era impossibile non farlo, impossibile pensare di essere altrove, non sentire la terra che si trasformava sotto le piante dei piedi”.
Dicevano che, quando ballava, Nureyev era sempre proiettato verso l’alto e sapeva dare un senso di partecipazione e di sofferenza come nessuno sapeva fare, grazie anche alla sua cultura, all’amore per la letteratura, alla conoscenza della musica che contribuivano a fare di lui un “genio dell’arte”. Una personalità esplosiva per un pubblico che lo adorava, lo trattava come una star hollywoodiana, un idolo da acclamare; la stessa personalità che comprometteva i suoi rapporti coi colleghi per i quali era un maleducato, un rozzo difficile da accontentare. “Chi vola alto è sempre solo”, diceva, tanto che la stella italiana della danza, Carla Fracci, lo rappresenta come un uomo che aveva sposato la danza, la fedele compagna che non tradirà neanche nel momento più difficile.
Ha poco più di cinquant’anni Rudolf quando si ammala di AIDS ed ogni mattino è costretto alla dialisi eppure, ogni mattino alle dieci, è alla sbarra. “Se mi chiedessero quando smetterò di danzare risponderei: quando finirò di vivere”, e così è stato. Rudolf Nureyev muore dopo tre anni, nel 1993, proprio nel giorno dell’Epifania che per i greci era la manifestazione della divinità, sinonimo di bellezza e perfezione, armonia e potenza, arte, poesia, meraviglia. Nureyev, con la sua danza, ha concesso il divino ai mortali, lasciando al mondo un’eredità impagabile, coronata dalla sua Lettera alla danza, scritta poco prima di spegnersi. “Ora so che dovrò morire, scriveva, perché questa malattia non perdona, ed il mio corpo è intrappolato su una carrozzina, il sangue non circola, perdo di peso. Ma l’unica cosa che mi accompagna è la mia danza, la mia libertà di essere. Sono qui, ma io danzo con la mente, volo oltre le mie parole ed il mio dolore”.
La lezione più grande Nureyev la lascia con queste parole, incise sulle note e sui passi di una danza che è nata con lui, una danza scritta per ogni uomo che voglia diventare ballerino, una danza eseguita per ogni uomo che voglia diventare uomo.