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‘Cogito, ergo sport’: Tania Cagnotto, il volo del gabbiano
“L’aspetto più esilarante del volare senza ali è la sua assoluta semplicità: basta muovere braccia e gambe come per nuotare, solo che ci si muove nell’aria. Basta essere convinti di riuscirci, e ci si riesce”.
(Andrea De Carlo)
Basta vedere il proprio corpo roteare nella mente, prima ancora che nell’aria; basta liberarsi, nell’istante prima del volo, della consapevolezza che in pochi secondi ci si gioca tutto, sudore, fatica allenamenti, sacrifici, speranze.
Il viso concentrato sul trampolino; il salto di chi vuole arrivare in alto, in tutti i sensi; la discesa di un corpo teso e al contempo sinuoso che chiede il permesso di rompere il velo d’acqua sotto di sé.
Un tuffo, un atto capace di unire terra, cielo e mare; il movimento in grado di sfruttare la massa del proprio corpo per abbattere la gravità, catturare la velocità e gettarsi nell’ignoto. È la totale fiducia nel vuoto dell’aria e nella sostanza del proprio corpo, nell’infinito del salto nel finito del volo.
È la capacità di adattare se stessi alla natura che cambia in un attimo:
il fuoco negli occhi dell’atleta; la terra, nella saldezza della tavola che dà il via allo slancio; l’aria che accarezza il corpo in volo; l’acqua che accoglie la discesa ripida, composta e pronta all’impatto.
Tania Cagnotto, tuffatrice italiana di ventotto anni, figlia d’arte, allenata dal padre Giorgio, ha regalato all’Italia molto più che una serie numerosissima di medaglie. Col suo stile e la sua grazia, Tania ha sempre avuto la capacità di accogliere le vittorie rimanendo sempre coi piedi a terra, sollevandoli solo per dare la giusta spinta al tuffo. Con lo stesso spirito affronta le sconfitte, persino quelle inaccettabili, come la medaglia di legno dell’Olimpiade di Londra, quando vede scivolare via il bronzo per soli 20 centesimi di punto. Lì non esistono seconde possibilità, non esiste consolazione né rassegnazione: è rabbia, è tristezza, rammarico, sconforto.
“Nulla sarà più come prima”, aveva detto Tania dopo la “botta”, tra le lacrime versate accanto a quelle del padre-allenatore. Eppure nessun insulto ai giudici, nessun grido di collera, nessun gesto eclatante di vittimismo o di sdegno. Perché è così che reagisce il campione, perché è questo il modo di non uscire sconfitti da una perdita, perché la dignità dell’atleta risiede nella capacità di mostrarsi umile e forte di fronte al pericolo, sia nell’attimo del tuffo che in quello successivo.
“Più bello dell’eterno sono gli attimi di eternità”, scrive Fabio Volo, e l’eternità di quella reazione composta, non diversa dall’infinita gioia per un argento come quello di Barcellona 2013, è ciò che rendono una brava tuffatrice una campionessa, di sport e soprattutto di vita.