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‘Cogito, ergo sport’: Tommie Smith e John Carlos, un calcio al mondo con un pugno in aria
“Libertà è partecipazione”, cantava Giorgio Gaber, ma a volte partecipare non basta, a volte si deve lottare, vincere, dimostrare, scandalizzare, rinunciare.
Lottare per i propri diritti vincendo la gara che serve a dimostrare che non si può dimenticare, che il mondo deve scandalizzarsi di fronte ai propri stessi eccidi, anche se questo significa rinunciare a una medaglia, a una carriera, a una vita.
In quell’ottobre del ’68, alle Olimpiadi di Città del Messico, due frecce nere scagliate verso il traguardo hanno reso immortale una vittoria contro l’ingiustizia, contro i massacri, contro la discriminazione e la violenza. Il sogno di Martin Luther King, assassinato sei mesi prima, l’America prospettata da Bob Kennedy, ucciso nel Giugno di quello stesso anno, il massacro di Tlatelolco in Piazza delle Tre Culture, pochi giorni prima dell’inizio dei Giochi: una vittoria per riscattarli tutti, un podio per non dimenticare, un segnale forte per l’affermazione di quella libertà che vale molto più di un nome sugli annali olimpici.
Tommie Smith, il texano tanto veloce da essere chiamato Jet, e John Carlos, nato nel ghetto nero di Harlem, dimostrarono che un gesto non violento, un inno cantato a testa bassa, un guanto nero levato in aria e dei piedi scalzi sui gradini alti del podio, possono scuotere il mondo e le coscienze di chi lo abita.
“La nonviolenza nella sua condizione dinamica vuol dire sofferenza cosciente. Non vuol dire umile sottomissione alla volontà del malfattore, ma significa impegnare tutta la propria anima contro la volontà del tiranno. Lavorando in base a questa legge, un solo individuo può sfidare tutta la potenza di un impero ingiusto per salvare il proprio onore, la propria religione, la propria anima e porre le basi per la caduta e la rigenerazione di quell’impero” (Jawaharlal Nehru).
L’isolamento dei due atleti e l’ostracismo per tutta la vita fu il modo con cui quell’ “impero” fondato sull’assoggettamento al potere bianco, alla politica del denaro, al governo delle armi tentò di vendicare il colpo ricevuto con un pugno rivolto al cielo.
Ma la rivoluzione ormai era avvenuta, il segnale era stato dato, nel mondo era risuonato l’urlo di centinaia di studenti uccisi per una manifestazione antigovernativa;
la gente aveva guardato in faccia la dignità di due atleti neri e di un terzo campione bianco, l’australiano Peter Norman, con una spilla nera appuntata sul petto durante la premiazione, in segno di solidarietà per un popolo vittima dell’ingiustizia.
Ogni nazione aveva visto il coraggio di chi è pronto a rinunciare a tutto in nome della giustizia sociale, del rispetto, della libertà, perché “il sentiero della nonviolenza richiede molto più coraggio di quello della violenza”, sosteneva Gandhi, ed è grazie alle “Pantere Nere”, Tommie Smith e John Carlos, che ancora oggi si parla di quella corsa che non si è arrestata ai 200 metri, una corsa cominciata prima di loro e con un traguardo ancora da raggiungere.