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L’importanza di saper vincere… e perdere
Che lo sport italiano non se la passi troppo bene, fatte salve alcune eccellenze, è cosa nota. Burocrazie, carenze tecniche e fondi scarsi frenano più di una disciplina. Ma il vero problema dell’Italia è culturale. Cresciuti nel mito della vittoria a tutti i costi, gli appassionati e i tifosi non riescono ad accettare le sconfitte e, cosa più grave, stentano a godersi le vittorie.
C’è sempre qualcosa da recriminare. Così, l’argento di Federica Pellegrini nei 200 stile libero ai mondiali di Barcellona è diventato pretesto per rimuginare sull’occasione mancata un anno prima a Londra; la straordinaria impresa di Tania Cagnotto nel trampolino da un metro è, per molti, diventata “beffa” o “delusione”, davanti a quel decimo di punto che è mancato per l’oro; la gioia per il titolo mondiale di un sempre più grande Martina Grimaldi nella 25 chilometri in acque libere ha presto lasciato spazio ai rimpianti per i risultati della 5 e della 10 chilometri.
Un po’ è come la storia dell’uomo che vede solo il dito e non la Luna verso la quale è puntato, un po’ è un problema di assenza di prospettiva, di volere tutto e subito, di non saper leggere oltre la medaglia e concepire un piazzamento ai piedi del podio come una disfatta. Basta prendere il mondiale di atletica di Mosca e la gara di Alessia Trost, finalista nell’alto alla sua prima esperienza tra i grandi, eliminata a quota 1,97 e quindi fuori dal discorso medaglie. Un’atleta dal potenziale straordinario, a cui però si chiedeva subito l’impresa. Da lei, che ha un personale all’aperto di 1,98, qualcuno si aspettava la medaglia. Ed è vero che le sarebbe bastato saltare 1,97 alla prima per prendersi il bronzo in una gara dai contenuti tecnici mediocri, ma evidentemente quella misura per lei non è ancora ordinaria amministrazione. C’è un potenziale da coltivare, condannarla è sbagliato.
Godersi una vittoria significa anche provare sincera riconoscenza per un campione, anche nei momenti più difficili della sua carriera, quando più ne ha bisogno. L’Italia pallonara ha invece una naturale propensione ai processi e alle sentenze. Quando dopo aver vinto l’Olimpiade ad Atene nel 2004, Aldo Montano incappò in una serie di infortuni e risultati negativi, si scrisse e disse che non aveva più motivazioni, che la popolarità e la tv gli avevano fatto male, che aveva la testa da un’altra parte. Lo sciabolatore livornese ha successivamente smentito tutti, ha ingoiato il rospo e tirato avanti, ma non tutti hanno la stessa forza d’animo. È bastata la pessima Olimpiade di Londra per mettere in discussione Federica Pellegrini, una che aveva conquistato titoli olimpici e mondiali, polverizzando record e dominando per anni la sua specialità. Il mito che crolla, la statua innalzata in fretta e furia che viene abbattuta dalla critica alla prima difficoltà. Tra i mille mali dello sport italiano, questo forse è il più grave e difficile da curare. Ed è dentro ognuno di noi.
Foto: Swimbiz.it
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gabriele.lippi@olimpiazzurra.com