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‘Cogito, ergo sport’: il cuore spezzato di Tyson tra le righe di Bukowski
“Ho sempre ammirato i cattivi, i fuorilegge, i figli di puttana. Non mi piacciono gli uomini perfettamente rasati, con la cravatta e un buon lavoro. Mi piacciono gli uomini disperati, con i denti rotti, il cervello a pezzi e una vita che fa schifo. Sono loro che mi interessano. Sono pieni di sorprese”.
Henry Charles Bukowski
Non si può certo dire che Michael Gerard Tyson, per tutti Mike, non sia un atleta, e prima ancora un uomo, pieno di sorprese, uno di quelli “disperati e coi denti rotti”, arrabbiato con la vita, desideroso di riscatto, orgoglioso e per molti persino “cattivo”.
Poco più che adolescente, Tyson diventa il più giovane campione del mondo di pesi massimi nel pugilato, domina incontrastato in dodici mondiali e si aggiudica il titolo WBA.
“Sono salito sul ring deciso a tirare fuori la belva che è in me” disse Mike Tyson, ma quella belva era troppo affamata per accontentarsi di qualche titolo e una serie di vittorie, o forse troppo abituata ad essere la più forte e perciò riluttante a qualunque possibilità di sconfitta. La storia ha sempre ricordato i suoi eroi e i suoi antagonisti, arrivando spesso a confondere le due parti. Nel caso di Tyson il campione e il nemico hanno convissuto a lungo, e le accuse di violenze sulla sua ex moglie, unite al carcere in seguito alla condanna per stupro verso “miss bellezza” Desirée Washington, hanno solo fatto da sfondo ad una carriera segnata da alti e bassi, trionfi e squalifiche, risse, violenze, alcol e droghe.
Bukowski diceva di amare i solitari, i diversi, quelli che non incontri mai, “quelli persi, andati, spiritati, fottuti, quelli con l’anima in fiamme”, e di sicuro avrà amato il boxer più famoso del mondo, lo stesso che oltre a strappare la vittoria era in grado di strappare l’orecchio all’avversario, specie se si trattava di Evander Holyfield, il pugile che l’anno prima, a sua volta, aveva strappato proprio a lui il titolo WBA.
Nuova estromissione dal mondo agonistico, nuovi accenti gravi sulla sua fama, nuove etichettature come quella che lo identifica come “un incrocio fra un bisonte e un gorilla col gusto vandalico della distruzione” (Gianni Brera) e, alla domanda “perché bevo?”, Tyson, sulla scia dello “zio Buck”, lo stesso che, come il campione di boxe, ha spesso trovato rifugio dalle proprie insofferenze nell’alcol, avrebbe probabilmente risposto “Perché non riesco ad affrontare la vita quando sono sobrio”.
Ma forse il modo alternativo di combattere Tyson è riuscito a trovarlo, o almeno così pare. Poche settimane fa, Mike rivela al mondo le proprie debolezze, ammettendo gli errori del passato, quelli che l’hanno segnato più profondamente di qualunque cicatrice, di qualunque colpo ricevuto da un guantone avversario. “Sono sul punto di morire, perché sono un alcolista […] Voglio cambiare la mia vita, ora voglio vivere una vita diversa”, ha affermato “il cuore spezzato di Tyson”, forse dopo aver capito che “la nostra grande guerra è quella spirituale, la nostra grande depressione è la nostra vita” (dal film Fight Club) e che continuando a prenderla a pugni anche fuori dal ring il rischio è quello di perdere tutto, prima ancora se stessi.
Nel 2005, al termine del suo ultimo match, aveva detto che quella era la sua fine, che per lui “finisce qui”; a distanza di anni Mike Tyson è riuscito a dare un significato diverso a quella fine. “Non farò più uso di sostanze”, ha promesso, perché per quanto la realtà possa fare orrore, prendendoti a schiaffi più di quanto un campione di boxe non riesca a fare, “alla fine non ci rimane che questa vita stupida, appesa a un filo, sorniona, che si prende gioco delle nostre insicurezze e dei timori che ci pervadono. L’unico atto che possiamo compiere è di amarla di un amore smisurato” (Charles Bukowski).
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