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Vietnam: alla scoperta del Qwan Ki Do

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TUY HOA (Vietnam) – Il Qwan Ki Do è un’arte marziale sino-vietnamita pensata e codificata dal Maestro Phạm Xuân Tòng, capace di fondere in essa le influenze ricevute durante la sua formazione culturale. Pham Xuân Tòng nacque il  17 luglio 1947 a Ninh Bình, nell’allora provincia dell’Indocina francese nota con il nome di Tonchino, oggi appartenente alla Repubblica Socialista del Viêt Nam.

Sin da giovanissimo è stato sottoposto ad una doppia influenza culturale, ricevendo gli insegnamenti del Maestro Chau Quan Ky, proveniente dalla Scuola Cinese, e di suo zio Phạm Tru, un adepto della Scuola Tradizionale Vietnamita. All’età di 21 anni si è poi recato in Francia, dove ha studiato numerose discipline per completare la sua formazione e per conoscere meglio la cultura ed il sistema di pensiero europei. È proprio questa ricca e complessa eredità culturale che lo ha portato alla codificazione dell’arte marziale nota come Qwan Ki Do o Quán khí đạo (secondo la dizione cinese o vietnamita).

Per questi motivi, è impossibile considerare il Qwan Ki Do come la creazione, ex nihilo, di una singola persona, ma quest’arte marziale va piuttosto intesa come un contenitore della cultura e della storia di popoli millenari, come quello cinese e quello vietnamita. Da questa ricchezza culturale, deriva anche una complessità ed una varietà dal punto di vista tecnico. Il Qwan Ki Do riunisce infatti numerose tecniche presenti nella maggior parte della arti marziali asiatiche (pugni, calci, bloccaggi, proiezioni, prese e percussioni), ma si differisce notoriamente per l’applicazione di due principi cardine: la Teoria dell’AvvicinamentoThuât Cân Chiên” ed il Principio delle Polarità Âm e Duong o “Cuong Nhu Tuong Thôi“, vale a dire l’armonia continua tra la forza e la morbidezza.

Il primo principio, la Teoria dell’Avvicinamento “Thuât Cân Chiên”, deriverebbe da un antico manoscritto vietnamita. Nel Qwan Ki Do essa si esplica, dal punto di vista tecnico, in attacchi che non risultano essere potenti e diretti, ma piuttosto all’insegna di movimenti e spostamenti veloci ed impercettibili, volti a distrarre l’avversario.

Al di là del punto di vista meramente tecnico, il lato più importante del Qwan Ki Do consiste probabilmente nel comprendere cosa c’è dietro quest’arte marziale, che deriva da una precisa filosofia e che pretende instaurare un nuovo stile di vita nel praticante. Nel mondo in cui viviamo, l’uomo è circondato da violenza e prova un sentimento di forte angoscia, sentendosi inadeguato, e reagendo quindi alla violenza con altra violenza, che si ritrova nella concorrenza e nell’aggressività nei confronti dell’altro. Al contrario, il Qwan Ki Do vuole eliminare questa violenza quotidiana nella quale l’uomo è impregnato.

A causa di tutto ciò, l’uomo è spesso portato a confondere la “potenza” con la violenza e l’aggressività. Ecco invece che il filosofo cinese Lao Tu ci spiega come quella che noi consideriamo forza sia in realtà una forma di debolezza, in quanto è sempre la morbidezza a prevalere. L’acqua, ad esempio, pur essendo un elemento leggero, possiede una grande “potenza”, tanto da essere capace di superare ogni ostacolo di e permeare le sostanze dure, proprio grazie alla sua fluidità. Allo stesso modo, ancora Lao Tu ci spiega che “Appena nato, l’essere è morbido e fragile. Morto, è rigifo e duro”. La vita è quindi morbidezza e fluidità, e la calma deve avere la meglio sulla violenza.

Questo è proprio il punto centrale del secondo punto cardine del Qwan Ki Do, il Principio delle Polarità Âm e Duong, vale a dire l’“Armonia incessante tra la Forza Fisica e l’Energia Vitale” o tra “la Forza e la Morbidezza“. Il Principio delle Polarità Âm e Duong non è altro che la forma vietnamita delle Polarità cinesi Yin e Yang: Âm (Yin) rappresenta l’agilità, la morbidezza, mentre Duong (Yang) rappresenta la forza.

In questo modo, ad un attacco forte bisognerà sempre opporre una reazione impostata sulla morbidezza, al contrario di quanto ci detterebbe l’istinto. Per raggiungere questo livello, il praticante deve possedere una grande padronanza tecnica, ma anche la coscienza del messaggio che si cela dietro: nessun aspetto del combattimento va rifiutato, ma bisogna accettare anche gli aspetti nefasti, il cosiddetto “rovescio della medaglia“.

Combattere per colpire realmente l’avversario, significa accettare il rischio di subire un colpo. Combattere per migliorare la conoscenza di sé stessi, invece, porta ad accettare positivamente sia la vittoria che la sconfitta. In questo modo il praticante non è portato a far prevalere la violenza e la forza, ma piuttosto a cimentarsi nel miglioramento delle proprie capacità fisiche e psichiche, non solo nel combattimento, ma più in generale nel contesto sociale in cui vive, nel tentativo di raggiungere la Serenità.

Si ringrazia per la collaborazione Roberto Zinicola

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