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‘Cogito, ergo sport’- Bosnia-Erzegovina ai Mondiali: il gioco vince la guerra
“Lo sport è l’esperanto delle razze”.
Jean Giraudoux
Più di un secolo fa un oculista polacco, Ludwik Lejzer Zamenhof, aveva un sogno: riunire i popoli attraverso un’unica grande lingua, l’esperanto, il codice della speranza che non appartiene a nessuna nazione perché è di tutte, indifferentemente.
Perché mai lo sport dovrebbe essere come l’esperanto, capace di vincere gli odi tra le genti, le lotte insanguinate di una storia mai sazia di guerra, potere, morte? Questo è il paradosso di un gioco che si impone su quanto di più serio non possa esistere, è il miracolo dello sport che realizza la più alta virtù dell’individuo: l’umanità.
Il 15 ottobre scorso un goal ha fatto il giro del mondo per partire alla conquista del mondo. Una conquista che non implica sudditanza né pretese, miseria o tragedie e che soltanto qui è possibile, nel mondo dello sport, dove ha luogo quell’apertura che il filosofo tedesco Heidegger chiamerebbe “lichtung”, radura. È la luce apertasi dopo anni di violenze, bombardamenti, assedi, distruzioni. Per la prima volta nella storia la Bosnia-Erzegovina, la giovane federazione di calcio riconosciuta dalla FIFA nel 1998, ottiene la qualificazione ai Mondiali 2014 in Brasile. La piazza di Sarajevo esplode di nuovo, ma stavolta non sono le truppe al servizio del presidente serbo Milošević né la NATO a far divampare il fuoco. Sono i festeggiamenti, l’entusiasmo, l’esultanza di migliaia di tifosi accorsi per celebrare il successo di una squadra che è la loro squadra, siano essi sloveni, bosniaci, serbi, croati.
La Bosnia-Erzegovina è la forza di un popolo che, in ottant’anni, ha visto cambiare l’aspetto delle città e mutare i sistemi di potere, ha conosciuto la disperazione di intere famiglie decimate da massacri e genocidi, di etnie in continuo conflitto tra di loro. Il fallimento di quel nobile progetto di autodeterminazione dei popoli ha reso i Paesi balcanici un mosaico di genti piene di rancori reciproci ed ha mostrato il volto dell’indifferenza di cui le grandi potenze mondiali hanno dato prova in questi decenni.
Difficile trovare un fattore unificante, capace di aggregare popoli diversi per religione, storia, cultura. Se l’esperanto poteva unire le lingue balcaniche, soltanto lo sport sarebbe stato capace di lenire antiche tensioni e fondare un sentimento di fraterna amicizia, creando uno scopo e un sogno comuni.
Per alcuni è il riscatto di giovani atleti nati sotto i cieli assediati dalle bombe, fuggiti dalla terra natale per sopravvivere all’inferno, come nel caso dei centrocampisti Senad Lulic e Miralem Pjanic; per altri è la possibilità di creare una vera unità che non ha nulla a che fare con la vecchia Federazione jugoslava ma vuole essere l’insieme compatto di repubbliche autonome e indipendenti. È lo stesso allenatore della Nazionale bosniaca, Safet Sušić, a dire che il calcio unisce la gente, e lo fa perché “i popoli non combattono le guerre per fare dello sport” (John Steinbeck).
Il gioco diventa allora un “fenomeno vitale”, non solo perché esiste da “tutta la vita” ma perché può portare vita là dove c’era la morte. Pensare allo sport come al benessere del corpo e prima ancora dello spirito, significa elevarlo a Volksgeist, a spirito di popolo, inteso però in termini universali come “comunità umana”.
Nell’antica Grecia le guerre s’interrompevano nel periodo dei Giochi; lo storico Polibio narra le vicende di Roma adottando il sistema cronologico “per Olimpiadi”, a prova dell’importanza, per l’appunto, vitale che queste avevano già millenni fa.
E allora in questo nostro mondo, “questo strano mondo, questo assurdo mondo” (Giorgio Gaber), è necessario dare spazio allo sport perché, come disse Friedrich Schiller, “l’uomo è veramente uomo soltanto quando gioca”, quando vince la più grande delle sfide, l’annientamento della guerra, con i tacchetti ai piedi e un pallone in rete, come nel caso della Bosnia-Erzegovina, la squadra di calcio paladina dell’umanità.