Artistica
‘Cogito, ergo sport’: Jury Chechi, la forza nel “tallone d’Achille”
“Possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso”.
Dal film “Il Signore degli Anelli”
La sorte pareva avergli concesso meno tempo per restare ai vertici mondiali, ma il Signore degli Anelli, il numero uno della ginnastica, il mito (inter)nazionale Jury Chechi è stato capace di depennare, con un tocco di carattere e una contrattura di bicipiti, quello che la fatalità aveva scritto per conto suo.
Barcellona 1992, Jury Chechi grande favorito: pochi giorni alle Olimpiadi, rottura del tendine d’Achille.
“Addio alle armi!”, griderebbe Ernest Hemingway, addio all’Oro olimpico, addio al sogno di proseguire la carriera di ginnasta, addio. Achille, il guerriero per antonomasia, colpito al tallone venne sconfitto; Chechi, scalfito in quello stesso punto dalla freccia del fato, seppe invece risorgere. Nessun addio quel giorno. A Jury Chechi bastò un anno per aggiudicarsi l’Oro mondiale, quattro per conquistare il primato europeo, mondiale, olimpico. “Fin da bambino ero molto determinato, volevo vincere le Olimpiadi”, racconta l’atleta, a prova del fatto che, al di là del talento e delle potenzialità, è con l’ “essere molto determinati” che si arriva in alto, alternando un volteggio in aria, leggero e dinamico, alla compostezza rigida e altrettanto fluida, apparentemente semplice da eseguire, senza tensione nel volto, senza dissesto del corpo.
L’arciere dell’infausto destino, tuttavia, non si dà per vinto e scaglia una nuova freccia, colpendo stavolta il perno che sorregge l’atleta nel momento di massimo sforzo. Proprio prima delle Olimpiadi di Sidney Chechi riceve la diagnosi medica per la rottura del tendine brachiale del braccio sinistro: niente più ginnastica. Il suo allenatore, Bruno Franceschetti dichiarò che Jury era delusissimo non perché doveva cessare, ma perché doveva cessare non per sua volontà. Per anni aveva impugnato le redini per spiccare voli da medaglie d’oro, come pretendere che anche stavolta il campione mondiale non impugnasse le redini del destino? Se la condizione dell’uomo è quella di vivere costantemente in bilico su un filo che dal momento all’altro può cedere, Jury Chechi ha saputo reagire a quel crollo di certezze forse grazie alla sua abitudine di starsene sospeso su anelli appesi a dei fili, instabili, quanto quelli della vita, sottili, imprevedibili.
È il 2004 l’anno della svolta, quello che segna definitivamente la vittoria di Chechi su una sorte che avrebbe voluto tenerlo fuori dal suo mondo molto prima del tempo. Contro le indicazioni dei medici, le aspettative della gente, l’età non più “tenera”, il dolore a quel braccio, la paura di fallire, Chechi sale per l’ultima volta su quegli anelli, nell’evento sportivo più atteso, le Olimpiadi di Atene, lì dove tutto è nato millenni fa, dove tutto doveva finire per Jury. L’Italia della ginnastica torna sul podio con un Bronzo che, a detta di tutti, poteva essere Argento ma che in quel momento non fa differenza. “Ad Atlanta mi ero sentito l’atleta più figo del mondo; ad Atene mi sono sentito un uomo, un uomo più forte di quanto pensassi”, commenta a distanza di tempo Jury Chechi.
Tommaso Moro scriveva: “Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare; che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare; che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere”.
Per fortuna invece Jury Chechi non ha saputo distinguerle, rompendo l’inevitabile, cambiando le cose che pareva non potessero essere cambiate.
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