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‘Cogito, ergo sport’: Kobe Bryant, la tenacia del Serpente pronto a cambiar pelle

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“È nel momento più freddo dell’anno che il pino e il cipresso, ultimi a perdere le foglie, rivelano la loro tenacia”.
Confucio

Un aprile particolarmente freddo quello che ha tentato di togliere le foglie a uno degli alberi più maestosi della NBA, il Black Mamba Kobe Bryant.
Una partita giocata sul filo del rasoio, il perfetto equilibrio tra i Guerrieri del Golden State e i Los Angeles Lakers di re Bryant. Non pare temere niente e nessuno la stella statunitense che continua a segnare un punto dopo l’altro finché un impatto sotto canestro non lo fa crollare a terra. Dolorante mentre stringe il ginocchio tra le mani, sente di non poter abbandonare la squadra, non in un momento come questo, quando un canestro basta a fare la differenza. Kobe rimane in campo, come il pino che non cede ai rigori del gelo, e continua il suo gioco. Pochi minuti dopo un cattivo atterraggio: il capitano dei Lakers zoppica ma non è ancora tempo di lasciare i compagni nelle grinfie dei Warriors. Con una tripla alla quarta ripresa le due squadre tornano in parità. Il freddo è però inflessibile e, nonostante la tenacia, Black Mamba è costretto alla resa. Rottura del tendine d’Achille, “la sfida più dura della carriera, come poco dopo ha affermato lo stesso Bryant.

C’è chi lo dava per spacciato, chi metteva a rischio la sua vita da cestista, chi riteneva si fosse bruciato troppo in fretta a causa del sovraccarico di lavoro che da anni gli viene richiesto: più giovane giocatore dell’All-Star Game, più giovane ad aver vinto lo Slam Dunk Contes, unico per numero di punti segnati alla sua età, record di triple in una sola partita. Kobe Bryant è considerato tra i migliori in circolazione, forse il migliore, ma “il talento non basta, ci vuole tenacia” (Beppe Severgnini), la stessa che Kobe pone in campo, la stessa che non lo fa mollare al primo errore, al primo colpo, al primo infortunio; la stessa che gli ha permesso di rimettersi in gioco, in tutti i sensi, nel giro di otto mesi. Un rientro che, certo, non lo lascia brillare: pochi punti in quella partita contro Toronto ma cosa si può pretendere da uno che “l’ultima volta che ha avuto 8 mesi di riposo era ancora nell’utero di sua madre”.

E forse il rientro a dicembre è stato troppo precoce come un parto prematuro perché dopo pochi giorni il due volte oro olimpico ha ceduto un altro ramo, un’altra foglia ai rigori dell’inverno, stavolta ancor più inoltrato. Sei settimane di stop da aggiungere al recupero precedente, altri giorni da “broaken, not beaten”. Il colpo è duro, la ripresa, psicologica e morale, affatto scontata. Un nuovo cambio di direzione, l‘inaspettato mutamento di gioco per cui non bastano un autoblocco, un backdoor o un contropiede ma si deve esser pronti a ripartire da capo, a reinterpretare se stessi e ripartire da dove non era previsto arrivare. Ma “il serpente che non sa cambiar pelle muore” (Friedrich Nietzsche) e Bryant è sempre stato un Mamba Nero, il più veloce dei rettili, pericoloso, imprevedibile, caparbio, tenace. Non è una resa il suo appello a non votare per lui all’All-Star Game, piuttosto un gesto di solidarietà verso giovani che “meritano più di me la convocazione.

Quando giochi a questi livelli, quando non sei un “semplice” giocatore della NBA ma il capitano dei Lakers, quando ogni aspetto della tua carriera risuona fin oltre Oceano e il tuo nome è stampato sulla Hollywood Walk of Fame, oltre che su tutte le testate giornalistiche, un doppio infortunio così grave e ravvicinato può essere fatale. Forse cosciente di ciò Bryant ha sempre affermato di “giocare ogni gara come fosse l’ultima” perché “non importa quanto segni, ciò che conta è uscire dal campo felice”.
Kobe è uscito dal campo il 20 dicembre, di sicuro non affatto felice: l’indizio che quella gara non può essere stata l’ultima; il segno che i punti a canestro non bastano ancora; la prova che l’uscita dal campo è solo un time out prima della ripresa del gioco.

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