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‘Cogito, ergo sport’: Sochi 2014, la Politica dello Sport
A distanza di giorni dalle Olimpiadi invernali, otto medaglie per gli azzurri, tra successi e delusioni, gare, record e spettacolo è difficile tirare le somme di quanto avvenuto perché il rischio di tralasciare fatti, imprese, personaggi è grande. Uno è però il punto su cui è necessario soffermarsi perché va al di là di questa edizione dei Giochi, andando persino oltre il mondo dello sport. Sochi è stato infatti l’evento tanto atteso quanto discusso degli ultimi mesi, uno dei casi più emblematici di inferenza politica nello sport, dell’intreccio tra società e gioco, potere e cultura, prestigio, comando e medaglie.
Le autorità da sempre fanno affidamento sul mondo dello spettacolo, ciò che è amato dal pubblico di tutte le età, di ogni rango e che, soprattutto, coinvolge ogni Paese. Giochi di prestigio estremamente raffinati per glorificare o demolire una nazione, messi in atto servendosi di chi i giochi dovrebbe condurli, non subirli.
Possono esistere un mondo e un tempo dove la cultura non viene strumentalizzata, l’arte contraffatta, lo sport utilizzato come fine e non come mezzo di potere? Una domanda che si perde nella notte dei tempi, nelle complesse e innumerevoli inchieste verso chi faceva parte del mondo dello spettacolo e veniva accusato di collaborazionismo al tempo delle grandi dittature.Era il caso di uno dei più grandi direttori d’orchestra, Wilhelm Furtwängler, che sotto il potere di Hitler aveva continuato la sua attività di musicista rifiutandosi di abbandonare la Germania.
E a distanza di decenni la storia torna a ripetersi. Tempi nuovi, ambito diverso, mutati i luoghi e le persone ma la sostanza resta la stessa. Olimpiadi invernali nella terra considerata omofoba, viste le misure legislative prese contro la propaganda gay; lo “sterminio”, come è stato definito, dei cani randagi prima dell’inizio dei Giochi; le spese esorbitanti, quasi sei volte superiori rispetto al preventivo di 9 miliardi di dollari, che solleva critiche non molto distanti da quelle che coinvolgono le Olimpiadi di Rio nel 2016: sarà una popolazione già stremata dalla fame e dalla povertà a pagare sulla propria pelle il denaro investito; e ancora le voci sui materiali scadenti delle infrastrutture, l’alto tasso di inquinamento, lo sfollamento di intere famiglie per lasciar spazio agli impianti sportivi, senza sottovalutare la minaccia di attacchi terroristici durante la manifestazione. Le assenze dei vertici delle grandi potenze occidentali, le sfilate del “Gay è ok”, carri armati, conflitti interni ed esterni, tutto questo ha fatto da sfondo all’evento sportivo per antonomasia. Uno sfondo che, come direbbe il fenomenologo Husserl, invece che recedere è spesso stato posto in primo piano dalla stampa, dai politici, dai mass media. In questo campo di percezione vario e complesso il protagonista del proscenio è diventato attrezzo di scena. Dov’è finito lo sport in questo caotico intreccio di fatti, strategie, oltraggi, menzogne, dichiarazioni?
L’idea stessa di boicottare un evento “politico” senza considerare che si tratta anzitutto di un evento sportivo, dell’evento sportivo per eccellenza, è ciò che di più ingiusto si possa compiere nei confronti degli atleti, per i quali questo è il luogo e il momento unico di mostrare e dimostrare il proprio talento che a distanza di un paio d’anni può non essere più lo stesso, e degli spettatori, gli amanti della sana e viva competizione. Esiste già una crudeltà intrinseca alla natura stessa dello sport, crudeltà che per certi versi è giustizia. In questo mondo non è come nella musica o nel cinema, dove l’anno sabbatico non compromette le capacità o la resa futura nel caso in cui si continui ad esercitarsi; lo sport vive di attimi, di istanti psicofisici, di tempi che dettano interazioni ed equilibri sottilissimi, che possono durare anni ma possono anche esprimersi al meglio per un breve periodo della propria carriera. Rinunciare oggi può voler dire perdere l’unica grande occasione che si ha di far valere platealmente ore di fatica e allenamenti quotidiani. Come si può allora pensare di utilizzare uno strumento tanto delicato in vista di obiettivi giudicati preminenti?
In riferimento alle ondate di polemiche suscitate per le leggi omofobe varate in Russia è stata proprio un’atleta lesbica dichiarata, Daniela Iraschko-Stolz, che a Sochi ha regalato all’Austria l’Argento nel trampolino femminile, a smorzare il clima di tensione tentando di ricondurre l’attenzione sui Giochi. “Le reazioni alla legge russa che vieta la propaganda gay mi sembrano esagerate. Meglio un bel salto, anche questo è una dichiarazione”.
Una dichiarazione che non è pro o contro Russia ma solo per lo sport, sport che è esso stesso politica, inteso nel senso originario del termine come partecipazione collettiva, spirito di gruppo, arte di vivere e partecipare alla polis e non dovrebbe perciò essere discriminata o, ancor peggio, strumentalizzata in vista di scopi estranei ad esso.
“Ciò che stava a margine è balzato nel centro, e del centro si è persa ogni traccia” (Umberto Eco, Il nome della rosa), cosa ben diversa da quando è il centro che sceglie di dar voce al margine, come nel caso del pugno guantato delle Pantere Nere nelle Olimpiadi del 1968 o del bacio lesbo delle russe Tatyana e Kseniya agli ultimi Mondiali di Atletica, come protesta contro le leggi omofobe del loro Paese.
Perciò è bene ricordare queste Olimpiadi invernali non come lo scontro tra fazioni, ideologie, partiti, Paesi, leggi, ma come il palcoscenico del trionfo di grandi atleti che solo in queste occasioni hanno modo di cogliere i frutti del loro lavoro e della fatica quotidiana. È politica dello sport e non sport della politica; per l’Italia è l’impresa storica del quarantenne Armin Zoeggler, l’ emozionante terzo posto di Carolina Kostner, l’argento e il bronzo di Christof Innerhofer, l’inaspettata sorpresa di Arianna Fontana.
“A ciascuno il suo”, come recita il libro di Sciascia, allo sport lo sport, la meraviglia, lo spettacolo, l’attesa, il sudore, le lacrime, l’orgoglio, la delusione, e soprattutto la passione, il primo vero veicolo del mondo, necessaria all’uomo per sopravvivere e per combattere battaglie anche al di fuori di una pista da sci, ma che da questa non devono prescindere quando ci troviamo nell’universo dei Giochi Sacri.