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Sei Nazioni 2014, Italia: la lezione arriva da Parigi

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Il rugby è crudo, onesto e franco forse come nessun altro sport sa esserlo e ieri dopo il termine della partita con l’Inghilterra ha decretato ufficialmente che i’Italia ovale è in uno stato di crisi avanzato.

La nazionale infatti, è soltanto la punta di un iceberg che raggruppa in un’unica squadra tutti i problemi del movimento nostrano. Dalle difficoltà delle franchigie ai caos in seno alla FIR, tutti si devono sentire responsabili di una debaclè dove alla fine chi ci mette la faccia sono Jacques Brunel e i suoi ragazzi.

Un’involuzione da far spavento pensando a 12 mesi fa, quando battemmo Francia e Irlanda, tra le mura amiche, e ce la giocammo con l’Inghilterra a Twickenham, steccando parzialmente le partite con Scozia e Galles, terminate comunque con un divario di punteggio “accettabile” pensando ai 172 complessivamente incassati in questo 2014.

Ma da qualcosa urge ripartire.

Allora serve necessariamente trasformare il tutto in qualcosa di positivo. Sforzarsi di vedere il “bicchiere mezzo pieno”, ad esempio pensando all’innesto di giovani effettuati dal tecnico transalpino durante il torneo, alla possibilità di dare loro maggiore continuità in futuro ed al rientro in un secondo momento, non troppo lontano, di uomini esperti del gruppo tricolore, che in questo torneo hanno fatto solo da comparse o quasi (Masi, Favaro, Minto, Venditti, Zanni, Sgarbi).

Bisogna ritornare a lavorare prima di tutto sulla condizione psicologica, per implementare di conseguenza quella fisica. Riprendere coraggio e consapevolezza nei propri mezzi fidandosi di Brunel che, nel frattempo, sta cercando di allargare la base di giocatori da cui attingere.

D’altronde, basti pensare alla partita tra Francia e Irlanda. Ieri ha deciso le sorti del torneo, appannaggio della leggenda vivente O’Driscoll e soci, mentre un anno fa questa sembrava essere una sfida tra due nobili decadute del rugby europeo relegate in fondo alla classifica del Sei Nazioni ed impegnate a non prendersi il Cucchiaio di Legno.

 

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michele.cassano@olimpiazzurra.com

Foto: Fotosportit/FIR

 

3 Commenti

1 Commento

  1. Al

    18 Marzo 2014 at 14:17

    Sicuramente quella squadra era meno ‘fisicata’ e più reattiva, parliamo dei Vaccari, Troiani, Dominguez, Cuttitta (se non sbaglio c’erano già il Barone e Bergamauro giovanissimi), poi nel rugby si è affermata l’idea che grosso è bello e noi siamo andati troppo in quella direzione, mentre gli altri si coltivavano gli O’Driscoll, Shane Williams, Doug Howlett e Habana. Se ricordi c’è stato un bel progresso negli anni di Berbizier, purtroppo ci ha lasciato a metà strada e ancora adesso, a distanza di anni, ci si lavora con Brunel. Io personalmente credo che il gioco più adatto al nostro ‘materiale umano’ sia quello sudafricano, avanzare intorno al raggruppamento sfruttando una prima linea forte e terze linee capaci di prendere il vantaggio, due o tre fasi così, poi quando hai assorbito mezza difesa, allarghi verso ali capaci di entrare in velocità che, con qualche metro di spazio in più tra i difensori, passano. Obiettivamente devo dire che a fare questo ci abbiamo già provato con Kirwan e Mallett e i risultati non sono stati eccezionali, però anche il livello medio dei giocatori era inferiore. Viceversa, sviluppare un gioco alla mano stile Francia, Irlanda o Galles non so quanto ci vorrà e soprattutto se ci riusciremo!

  2. MARIO82

    17 Marzo 2014 at 12:52

    In effetti mi ricordo che la Francia e l’Irlanda le battemmo nei test match ancor prina di entrare nel 6 nazioni , nel 1997 mi sembra , quella nazionale aveva molta più corsa ed era più italiana nel senso che non c’erano tutti questi naturalizzati come adesso.
    Mi pare che come dici tu si sia puntato troppo sulla fisicità e questo ha reso il gioco spesso troppo macchinoso e poco creativo , forse bisognerebbe tornare alla filosofia che avevamo prima di entrare nel 6 Nazioni.

  3. Al

    17 Marzo 2014 at 11:41

    Sono abbastanza d’accordo con tutto. Tifare il rugby azzurro è una punizione: grandi aspettative, poi arriva il Sei Nazioni, il Mondiale e torniamo (quasi) sempre a casa con le pive nel sacco. C’è di buono che il rugby italiano è un movimento sano in cui si vedono sia l’investimento della federazione e delle squadre, sia i risultati. Magari in Italia si facesse tutto così. Diciamo che negli ultimi anni la crescita è rallentata, forse a causa della crisi generale del Paese, forse era inevitabile, perché da tempo ormai gli avversari ci prendono sul serio. Per gli inglesi, che si sa cosa pensano della ‘dolce vita’, siamo l’avversario fisicamente più duro del pianeta. Forse è proprio questo attualmente il nostro limite, i nostri avevano sviluppato una fisicità estrema per cui a un certo punto avevamo la mischia più forte del mondo, ma non sapevamo correre. Ora perdere questo modello, e tirare su gente con il fisico ‘italiano’ e le gambe di un Brown non è che sia facile. E’ un’evoluzione che riguarda tutti i reparti, infatti anche la mischia non è più dominante, ma è necessario per fare mete, anche perché l’eventuale predominio della mischia ‘schiacciasassi’ non veniva supportato da buoni calciatori. Spero che la crescita del rugby italiano continui perché è una delle poche cose che vedo portate avanti in modo serio e programmatico, una volta chiusa la ‘partita’ della lega celtica bisogna però secondo me rimettere al centro il movimento locale.

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