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‘Cogito, ergo sport’: Rubin Carter, 20 anni per errore
“L’errore ha i suoi martiri, come la verità”.
Alphonse Karr
L’errore ha avuto il suo martire, un martire scelto, voluto, pesato. Un martire grande, conosciuto. Un martire nero.
Lo chiamavano Hurricane, l’uragano Rubin Carter, il pugile americano che negli anni Sessanta era capace di mandare in visibilio il mondo intero, specie dopo il KO del campione del mondo Emile Griffith.
Più basso di un peso medio, Carter aveva una forza e una velocità che lo rendevano imprevedibile, inarrestabile come un uragano. L’unico modo per fermare i suoi colpi fu quello di riversare su di lui l’accusa di un triplice omicidio, facendo ingiustamente scontare a un nero quasi venti anni di prigione.
“Come può la vita di un tale uomo essere nelle mani di gente così folle?”, cantava Bob Dylan; come può un innocente vedere la sua carriera, la sua libertà, la sua intera vita spezzata da una motivazione a sfondo razziale?
“Nel vederlo così palesemente incastrato, mi sono vergognato di vivere in un Paese dove la giustizia è un gioco” (“Hurricane”), dove la giustizia diviene un pericolo, un oltraggio, un crimine. Probabilmente, più che per le 27 vittorie su 40 incontri combattuti, la cintura di Campione del Mondo conferitagli dal World Boxing Council nel 1993 fu un tentativo di riscatto simbolico per quell’assenza forzata dal ring dove, a detta di Benvenuti, sarebbe di sicuro divenuto uno dei più grandi pugili della storia visto il suo temperamento, “unito a un fisico straordinario e ad una gran voglia di combattere” (Nino Benvenuti).
“Ma il tempo, il tempo chi glielo rende? Chi gli dà indietro quelle stagioni di vetro e sabbia, chi gli riprende la rabbia e il gesto, donne e canzoni, gli amici persi, i libri mangiati, la gioia piana degli appetiti, l’arsura sana degli assetati, la fede cieca in poveri miti?” (Francesco Guccini).
Un povero mito, Rubin Carter, che non si è mai definito uno stinco di santo ma di certo non è mai stato un assassino. L’unica consolazione oggi, a pochi giorni dalla morte per un cancro alla prostata, è quella di vedere il suo nome accanto alle grandi stelle del pugilato, rispettato e onorato come un valente campione con la sola colpa di aver scelto, negli anni sbagliati, uno sport che non gradiva vedere uomini di colore brillare sulle cime delle classifiche.
“Incarcerarono il mio corpo, non riuscirono mai a farlo con la mia mente”, e non riuscirono a farlo neanche con la sua dignità di uomo e di campione che in quei venti anni di prigionia ha lasciato un intero Paese a riflettere sulle idiozie di una discriminazione razziale, di un’ingiustizia subita senza riscontrare la volontà di vendetta che, se mai ci fosse stata, nessuno avrebbe avuto il coraggio di recriminargli.
“Ecco la storia di Hurricane, l’uomo che sarebbe potuto diventare il campione del mondo” (Bob Dylan), l’uomo che, in un modo o nell’altro, alla fine lo è diventato.
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