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Storie Mondiali: il doppio capolavoro del tenente Vittorio Pozzo

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Il commissario unico era un ufficiale degli alpini e un fascista di regime. Vale a dire uno che apprezzava i treni in orario ma non sopportava gli squadrismi, che rendeva omaggio al monumento degli alpini ma non ai sacrari fascisti
(Giorgio Bocca, “Pozzo, Meazza e Piola, l’Italia a misura d’uomo“, da La Repubblica del 7 luglio 2006)

Si tende a dimenticare tutto di quegli anni tristi, nei quali i valori della democrazia e della convivenza civile venivano via via triturati e umiliati, in Italia come in altri paesi, sino a sfociare nel più drammatico e sanguinoso conflitto che la storia umana ricordi. Si tende però a dimenticare anche quei personaggi che nulla c’entravano con la politica e con le “decisioni irrevocabili”, perché la damnatio memoriae è una condanna senza appello: ha colpito Fiorenzo Magni, la cui unica colpa è aver aderito alla Repubblica Sociale Italiana, ha colpito Vittorio Pozzo, perché la sua nazionale faceva (meglio: era obbligata a fare) il saluto romano prima delle partite.

A lui, piemontese, italiano, vincitore di due Campionati del Mondo di calcio (o Coppa Rimet, come si chiamava allora) e di un’Olimpiade, non è stato nemmeno dedicato lo stadio di Torino costruito per i Mondiali di Italia 90 (quel Delle Alpi già caduto in disgrazia, a conferma dell’italica incapacità di gestire i grandi eventi, sportivi e non); anzi, in quei vent’anni post bellici sino alla sua morte, nel 1968, nessuno parlava di lui, nessuno lo ricordava, nonostante fosse sua l’unica e ultima, sino ad allora, Italia vincente nella storia del calcio.

Pozzo, nato nei pressi del quatiere torinese di Porta Susa nel 1886, ha con sé sin dalla più giovane età la più pura etica del lavoro, derivante dalla sua famiglia contadina di origini biellesi; el travaj, il lavoro, va di pari passo con una ferrea disciplina, che infonde a se stesso, giovane calciatore al Grasshoppers e poi al Torino di cui è tra i fondatori, e che infonde ai suoi ragazzi nelle sue esperienze da allenatore. Da dirigente dei granata, non disdegna qualche trasferta in Inghilterra, Manchester in modo particolare, per studiare il football, perché allora il calcio era semplicemente…l’Inghilterra. Tra il 1912 e il 1922 allena il Torino e conduce l’Italia alle Olimpiadi di Stoccolma, accettando l’incarico azzurro a patto di non vedersi riconosciuto alcun compenso aggiuntivo, per un senso patriottico che dimostra arruolandosi come Tenente degli Alpini nel primo conflitto mondiale. In trincea, fianco a fianco con i soldati, il suo senso di disciplina ne esce ulteriormente rafforzato; nel 1924 conduce l’Italia ai quarti di finale delle Olimpiadi, quindi si trasferisce a Milano dove vive il football solo come osservatore, mentre prosegue le sue attività di giornalista e dirigente della Pirelli.

Nel 1929, però, cambia di nuovo tutto: lui, ormai dirigente aziendale, viene chiamato per la terza volta alla guida degli azzurri; anche in questo caso, il tecnico, che ben comprende l’intenzione del regime di sfruttare il pallone a fini propagandistici, accetta senza richiedere compensi, in modo da avere una propria autonomia. L’Italia non partecipa al primo Campionato del Mondo, quello disputato nel 1930 in Uruguay, per ragioni logistiche, ma organizza quello del 1934, dove, a fronte dell’assenza dello stesso Uruguay e di un’Inghilterra che si ritiene “troppo superiore”, le squadre dell’Est Europa rappresentano il pericolo maggiore. Pozzo gira il paese, recupera calciatori da ogni parte: anche ex calciatori, perché Gianpiero Combi, trentaduenne portiere della Juventus, aveva già annunciato il ritiro; o Attilio Ferraris, mediano trentenne della Lazio,  disperso nei bar tra sigarette, birre e poker.  Con loro, con Giuseppe Meazza che è la vera stella della nazionale, col centravanti Angelino Schiavio da Bologna, ci sono alcuni oriundi; come Luis Monti, Raimundo Orsi ed Enrique Guaita, figli di italiani emigrati in Argentina. D’altronde,

Se possono morire per l’Italia, possono anche giocare per l’Italia

– commenta il Commissario Unico riferendosi alla loro coscrizione militare. Nel match di qualificazione, disputato a marzo, l’Italia sconfigge 4-0 la mediocre Grecia, che poi non si presenta al ritorno. Il lavoro è duro, durissimo: sia sul piano tattico, per imparare il “metodo all’italiana” basato su una difesa senza fronzoli e rapide ripartenze, sia sul piano atletico e mentale, con il ritiro ad Alpino, località in quota sul Lago Maggiore, nel quale essenzialità e spartanità sono all’ordine del giorno. Ai Mondiali, il debutto è semplice: 7-1 agli Stati Uniti, squadra giunta a Roma per divertirsi e poco di più. Il 31 maggio, 1-1 con la Spagna: solo Giovanni Ferrari riesce a bucare la rete del leggendario Ricardo Zamora, uno dei portieri più forti della storia del calcio che viene però messo fuori uso per la ripetizione del match, quando è invece Meazza a segnare il gol che trascina gli azzurri in semifinale. Il 3 giugno, a Milano, ci pensa l’oriundo Guaita a piegare l’Austria, con il portiere Combi che vola come un angelo da un palo all’altro a dire di no a Sindelar-che poi si suiciderà nel 1939, non sopportando l’annessione alla Germania nazista- e compagni. Si arriva all’ultimo atto: 10 giugno, Roma, Italia-Cecoslovacchia. Primo tempo nervoso e di equlibrio. Oltre metà ripresa, Puc devia in rete una punizione e regala il vantaggio agli ospiti, e poi Sobotka colpisce il palo. Sembra finita, ma Orsi al minuto 80 finalizza una triangolazione con Ferrari e manda l’Italia ai supplementari dove, al quinto minuto, Schiavio calcia a rete, poco prima di svenire stremato dalla fatica, beffando il forte portiere Planicka.  L’Italia è campione del mondo.

Nel 1936, all’Olimpiade di Berlino nella quale Jesse Owens umilia le hitleriane teorie sulla superiorità della razza, l’Italia di Pozzo sconfigge 2-1 l’Austria in finale e conquista il primo e unico titolo a cinque cerchi della propria storia; nel 1938, però, c’è un Mondiale da difendere. Nel territorio più difficile, perché la Francia non simpatizzava certo per un’Italia via via più fascista, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale. E la stessa formazione azzurra è diversa, diversissima da quella di quattro anni prima: gli oriundi non ci sono più, come non c’è più Schiavio, non c’è più Ferraris, non c’è più Combi. A fianco di Meazza, il triestino Colaussi e il leggendario Silvio Piola formano un tridente offensivo di assoluta qualità; in porta ci va Aldo Olivieri detto il Gatto, mentre Alfredo Foni e Pietro Rava costituiscono la prima coppia indimenticabile di terzini che avrà, nel corso degli anni, eredi più che degni.

Tra insulti e sputi, tra tensioni e amarezze, mentre il mondo intero ha un antipasto della sofferenza a cui andrà incontro con il mirabile “Guernica” di Pablo Picasso, la terza edizione della Coppa Rimet va ancora all’Italia. Soffertissimo 2-1 alla Norvegia in apertura, col pubblico marsigliese inferocito per il saluto romano; Olivieri salva una partita che stava prendendo una brutta piega e Piola regala la vittoria solo ai supplementari. Alcuni giornalisti non le mandano a dire per questa deludente prestazione e l’Italia inaugura il silenzio stampa, mentre Pozzo, segretamente, accorda alcune ore di svago e libertà ai suoi giocatori per farli rilassare. E con la Francia, in una sfida dal sapore ben più che calcistico, l’Italia domina 3-1: Ferrari e Meazza sembrano quelli di quattro anni prima, Colaussi e Piola rappresentano il vero valore aggiunto e persino il pubblico di Colombes deve piegarsi ad applaudire la superiorità dei ragazzi di Pozzo. In semifinale, c’è il Brasile; già allora, un Brasile formidabile, fortissimo…e sicuro di vincere, tanto da aver già prenotato l’aereo per Parigi, dove si giocherà la finale. Il CT azzurro va in visita al ritiro dei sudamericani, per fare pressione psicologica ma anche per caricare al massimo i suoi ragazzi: quando questi sapranno infatti dell’assoluta sicurezza brasiliana sulla vittoria, troveranno ulteriori energie per andare a vincere. E l’Italia vince, infatti: Colaussi prima, poi Meazza, con un leggendario rigore calciato tenendosi i pantaloncini perché si era rotto l’elastico, realizzano in avvio di ripresa l’uno-due decisivo, e a nulla serve, al minuto 84, la rete di Romeu.

Finale, anche questa volta, contro una squadra dell’Est: l’Ungheria, non ancora quella di Puskas e Hidegkuti, ma comunque una formazione tecnicamente di altissimo livello, persino superiore agli azzurri. Ma l’Italia è gruppo, è una squadra dove allenatore e tutti i giocatori si butterebbero nel fuoco l’uno per l’altro, è questo il vero capolavoro di Pozzo: ne viene fuori una partita bellissima, tuttavia quasi sempre controllata dagli azzurri, che vincono 4-2  con le doppiette di Colaussi e Piola. Siamo ancora campioni del mondo.

L’Italia due volte mondiale, l’Italia di Pozzo, viene travolta dalla guerra. Alla ripresa, ne restano le macerie e il CT trova però nuova linfa nel Grande Torino: tuttavia, nel 1948 viene sollevato dall’incarico per marcare brutalmente la nuova fase storica. Damnatio memoriae, si diceva, ovvero condanna della memoria; Pozzo sparirà nel suo Piemonte e, pur contribuendo alla creazione del centro sportivo di Coverciano, il suo ultimo, drammatico incarico ufficiale  sarà quello di riconoscere le salme dei ragazzi granata, a Superga, il 4 maggio 1949. Erano ancora i “suoi” ragazzi, che avrebbero magari dato vita ad un altro ciclo immenso e vincente, come quello del decennio precedente. Ma questa è un’altra storia.

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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com

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