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‘Cogito, ergo sport’: Kevin Durant, MVP da tutta una vita
“Si nasce sempre sotto il segno sbagliato e stare al mondo in modo dignitoso vuol dire correggere, giorno per giorno, il proprio oroscopo”.
Umberto Eco
Stare al mondo in modo dignitoso vuol dire sacrificare, lottare con grandi obiettivi e altrettanta umiltà. Venire da una famiglia povera, senza padre, una madre di vent’anni alle prese con bocche da sfamare, nomadi tra case senza letto e senza mobili: tutto questo può portare a sentimenti di rivincita, di voglia di uscire da quella miseria con la forza della rabbia oppure col riscatto di un sano orgoglio. Sano abbastanza per diventare uno dei più grandi giocatori del massimo campionato di basket; tanto sano da vincere due Ori nazionali e il premio di miglior giocatore NBA della stagione appena passata.
Kevin Durant, cestista statunitense, cinque stagioni nell’Oklahoma City Thunder, MVP 2013-2014.
Quando si arriva così in alto è facile correre il rischio di dimenticare le proprie origini, di lasciare indietro persone che hanno contribuito a renderti la stella che sei diventato. Facile perdersi nelle insidie del successo, nell’arroganza del “migliore”, nel narcisismo di sé.
“Quest’anno, per la prima volta da quando gioco, non ho messo il basket al primo posto: al primo posto per me c’era essere uomo”.
E Kevin Durant ha dimostrato di fronte al mondo che cosa significa essere uomo anche quando si è nella ristretta cerchia dei migliori atleti in circolazione.
Essere uomo è raggiungere l’obiettivo “guadagnandomi tutto, senza che nessuno mi desse qualcosa”; essere uomo è arrivare in cima con i piedi ben fissati alle radici su cui sono stati mossi i primi passi. E significa ammettere che un premio personale non esisterebbe se non fosse condiviso con quelle stesse radici. Fratelli, amici, Mamma: “sei riuscita a darci la speranza, togliendoci dalla strada, vestendoci e dandoci da mangiare mentre tu, spesso, andavi a dormire affamata. Tu ti sei sacrificata per noi. Il vero MVP sei tu”.
Parole forti, commosse, non atte semplicemente allo show, alla commozione generale. Parole che spogliano l’idolo della propria aura “cultuale” mettendo a nudo le debolezze legate ad un passato umile, difficile, ad un carattere forte che da solo, tuttavia non ce l’avrebbe fatta.
L’umiltà, “anticamera di tutte le perfezioni” (Marcel Aymé), è ciò che rende l’atleta campione e che fa del campione un uomo.
Come sosteneva Aristotele, “la dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli”, nella coscienza di essere un MVP da sempre.
E se ora, a distanza di anni da un passato mai dimenticato, Kevin Durant possiede onori è solo grazie a quella grande dignità che gli ha permesso di meritarli.