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Storie Mondiali: la bella e perdente Olanda
Ci sono quelle nazionali che, nella storia dei Mondiali di calcio, sono spesso arrivate ad uno o due passi dalla gloria, ma non possono vantare nella loro bacheca quel pregiato trofeo: la Cecoslovacchia, l’Austria, la Svezia, la Polonia, l’URSS, l’Ungheria e l’Olanda. Nessuno come quest’ultima, tuttavia, ha mai sfiorato così da vicino e così tante volte il massimo titolo globale, pur tornando a casa a mani vuote. Sono storie diverse, di epoche persino distanti tra loro, ma con un minimo comun denominatore: il bel gioco, talvolta persino rivoluzionario nella propria epoca, che questa formazione ha saputo esprimere in svariate occasioni.
L’Olanda più recente, più facile da ricordare e se vogliamo persino più sorprendente è quella di quattro anni fa. Una squadra basata sul talento di Wesley Snejder e Arjen Robben, sulla concretezza offensiva di Robin van Persie e di quel Klaas-Jan Huntelaar troppo rapidamente “rottamato” dal calcio italiano, sull’esperienza di alcuni elementi come Mark van Bommel e Giovanni van Bronckhorst, sull’intelligenza tattica di un allenatore molto sottovalutato come Bert van Marwijk. Già nel match inaugurale, contro la Danimarca, si vede un fraseggio rapido ed un gioco piacevole, sebbene ci voglia un autogol di Agger per sbloccare prima del raddoppio di Dirk Kuyt. Il punteggio pieno degli orange nella fase a gironi è completato dall’1-0 al Giappone e dal 2-1 al Camerun: se nella fase offensiva, come si è visto, non mancano nomi di caratura internazionale, al tempo stesso quell’Olanda fa della solidità difensiva, davanti al portiere Maarten Stekelenburg, un fondamentale punto di forza. Negli ottavi di finale la pratica Slovacchia (sì, proprio quella Slovacchia che aveva affossato gli azzurri di Marcello Lippi) è affossata da Robben e Snejder, e a nulla vale un rigore di Vittek in pieno recupero; nei quarti, l’Olanda forse più bella di quel Mondiale sconfigge 2-1 il Brasile con due pennellate di Snejder mentre in semifinale, in un match veramente spettacolare, finisce il sogno della Celeste uruguayana che cede 2-3 ai gol di Van Bronckhorst, Snejder e Robben. In finale, tuttavia, la Spagna pone un altro tassello dell’ineguagliabile (e ancora aperto) ciclo vincente piegando la resistenza orange a quattro minuti dal termine dei supplementari: una beffa amarissima dopo un match nervoso e di resistenza, con svariati cartellini gialli e buone occasioni da ambo le parti.
Tale conclusione riporta alla mente degli appassionati olandesi quanto vissuto negli anni settanta: già, non nell’epoca di Van Basten-Gullit-Rijkaard, con i quali comunque arriva il titolo europeo del 1988, ma il decennio prima. Quello del caos organizzato, del calcio totale, semplicemente di arancia meccanica, nome di facile derivazione dal film di Kubrick. Gli olandesi portano mogli, fidanzate e amiche in ritiro, sconvolgendo il mito di determinate privazioni per arrivare al successo: e con Rinus Michels in panchina, tecnico giramondo, il Mondiale 1974 è quello della rivoluzione; la rivoluzione della zona, del pressing, del fuorigioco, della copertura immediata di un uomo a rimpiazzare chi si lancia in una scorribanda offensiva (qualcosa di simile si era già visto con la Grande Ungheria, di cui parleremo prossimamente). E chi era il miglior interprete, se non Johan Cruyff?
“Appartiene alla categoria degli attaccanti capaci di improvvisare, svariare, creare. Difficile marcarli a uomo, difficile marcarli a zona” – commenta Claudio Gentile, così riportato da Gianni Minà e Darwin Pastorin in “Storie e Miti dei Mondiali”. Un fuoriclasse tecnicamente completo, capace di farsi trovare nelle più diverse zone del campo, di dare il proprio contributo ad ogni fase di gioco, di mandare in porta i compagni e di finirci in porta lui stesso. Quell’Olanda cede però alla Germania Ovest, più concreta e meno bella: già, forse il limite degli orange è esattamente questo. Sono troppo belli, troppo convinti della propria superiorità: una presunzione che lo stesso Cruyff pagherà a carissimo prezzo da allenatore, in quella celebre finale di Coppa dei Campioni del 1994 clamorosamente persa 4-0 dal suo Barcellona contro il Milan di Fabio Capello.
Nel 1978 la vicenda è simile. L’Olanda qui ha nuovamente la sfortuna di trovarsi opposta, nell’atto finale, ai padroni di casa: stavolta l’Argentina, quell’Argentina che ospitava i Mondiali negli stessi stadi dove venivano rinchiusi e torturati i prigionieri politici, quell’Argentina che soffocava le prima grida di dolore delle Madri di Plaza de Mayo. L’Argentina vince 6-0 contro il Peru nel secondo girone eliminatorio (e serve casualmente proprio una goleada di quelle proporzioni per accedere alla finalissima…) e sconfigge poi 3-1 l’Olanda. Ci vogliono però i supplementari a piegare quell’Olanda leggermente meno bella della versione 74 (anche perché Cruyff non c’era più), ma altrettanto propensa a giocare al calcio nel senso più completo del termine, con i due gemelli van de Kerkhof, lo spettacolare Neeskens, il capitano Krol che devono però cedere a quell’Albiceleste formata da un mix di contrabbandieri, gitani e visi poco raccomandabili ma molto talentuosi.
Finisce lì il mito dell’Olanda, anche se il calcio totale fa storia: il Milan di Arrigo Sacchi, piuttosto che lo stesso Barcellona di Guardiola, altro non sono che evoluzioni adattate ai tempi di quella formidabile filosofia di gioco, bella ma, nel caso dei tulipani, sfortunatamente perdente.
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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com