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Il naufragio di Prandelli e la deriva di un calcio italiano sempre più malato

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Lacrime di rabbia. L’impotenza di chi, dinanzi ad un declino che si propaga inesorabile, si rende conto di non avere le armi per arginarlo.

Mezzo secolo dopo, l’Italia viene eliminata nella fase a gironi di un Mondiale per due edizioni di fila (era già accaduto nel 1962 e nel 1966). I numeri sono impietosi: solo un’altra volta avevamo segnato appena due gol in una rassegna iridata, sempre nel 1966, l’anno della Corea del Nord. Due sconfitte nello stesso Mondiale, inoltre, erano maturate anche nel 1954, 1966, 1978 (ma con quarto posto finale) e 2002 (una delle due, ai supplementari). Tocchiamo il punto più basso della nostra storia, con il rischio tangibile che possa accadere anche di peggio.

Una prima considerazione, di per sé piuttosto cruda: per la prima volta da 40 anni, ci siamo presentati ad un Mondiale consapevoli di non aver alcuna possibilità di vincerlo. Troppe le lacune di una selezione tricolore giunta in Sud-America con tante, troppe lacune, con la speranza vana che l’aria iridata le cancellasse di colpo. Illusione.

Ma prima di soffermarci sui mali, forse incurabili, del calcio italiano, è bene partire dalla causa scatenante di un fallimento che affonda le radici nel tempo. Il Mondiale, come ha ammesso lo stesso Prandelli, lo abbiamo perso con il Costa Rica. Un match assolutamente alla portata, che se vinto avrebbe garantito una qualificazione pressoché certa, un primo posto nel girone probabile e, con esso, un ottavo di finale non proibitivo. Magari dopo aver fatto riposare qualche titolare con l’Uruguay. Sarebbe cambiato tutto, evitando un match da dentro o fuori con una nazionale esperta e ruvida come la Celeste.

E’ innegabile che l’arbitro Moreno, un cognome che ci perseguita e fa rivivere l’incubo del 2002, abbia influito in modo determinante e decisivo sull’eliminazione degli azzurri: un rosso inventato a Marchisio e il morso del ‘vampiro’ Suarez rimasto impunito. Due episodi troppo eclatanti in un incontro cosi’ equilibrato ed incerto. Ma è innegabile anche come l’Italia, in due partite, non abbia mai tirato in porta.
Il progetto tecnico di Prandelli, ed in questo va apprezzata l’onestà dell’ormai ex ct di Orzinuovi, si è sgretolato, fallendo miseramente la prova del nove. L’allenatore bresciano ha cercato in questi 4 anni di cambiare la mentalità del nostro calcio, imponendo una nuova filosofia, riassumibile come segue: basta catenaccio e contropiede, proviamo a giocare ed imporre il nostro gioco. Un modus operandi che ha convinto nel primo biennio, culminato con la finale europea contro la Spagna, ma rivelatosi inattuabile negli ultimi 12 mesi, soprattutto per carenza di interpreti adatti a questo tipo di calcio.
L’avvicinamento all’evento non era stato fortunato, con gli infortuni prima di Giuseppe Rossi (tagliato perché ritenuto non al top della condizione, anche se, a nostro parere, anche un Pepito al 50% avrebbe fatto comodo) e poi di Riccardo Montolivo, quest’ultimo vertice alto del rombo di centrocampo che ha obbligato Prandelli a rivoluzionare lo schema tattico proprio a pochi giorni dal debutto con l’Inghilterra. Dopo 4 anni impostati con 2 attaccanti, il ct ha deciso di puntare su un discutibile 4-5-1, affollando il centrocampo di palleggiatori e sostanzialmente ricalcando il modello spagnolo (ormai naufragato). L’esibizione con l’Inghilterra, pur non esaltante, era stata salvata dal risultato. I limiti di questo modulo sono però emersi nitidamente con il Costa Rica. Completamente in confusione, Prandelli si è rifugiato nel 3-5-2 di stampo juventino, ridando in parte una parvenza di solidità alla difesa, ma continuando a sviluppare una manovra lenta e prevedibile. ‘E’ il fallimento del mio progetto tecnico“, ha dichiarato Prandelli. L’impressione è che il buon Cesare avesse questo sentore già dal ritiro di Coverciano ed i continui cambi tattici lo dimostrano.

E veniamo ai giocatori. L’ex commissario tecnico ha perso la sua scommessa più grande. Ha investito per un quadriennio intero su Mario Balotelli. Lo ha coccolato, incoraggiato, perdonato. Lo ha trattato quasi come un figlio. Il Mondiale brasiliano ha invece emesso un verdetto inappellabile: ad oggi, ‘Super Mario’ (le virgolette sono volute) non è il fuoriclasse che l’Italia sperava di aver trovato. Certamente un buon giocatore, discontinuo, di sicuro incapace di caricarsi una squadra sulle spalle. Il fallimento della grande speranza Balotelli è lo specchio di un calcio italiano sempre più povero e mediocre. Il trionfo iridato del 2006 aveva segnato la fine di un ciclo d’oro con i vari Del Piero, Totti, Cannavaro, Nesta e via dicendo. Di quel gruppo sono rimasti i soli De Rossi, Pirlo e Buffon, ancora i migliori malgrado le trenta primavere superate abbondantemente. In otto anni abbiamo assistito ad un ricambio non all’altezza della tradizione dell’Italia.
Senza precedenti la crisi del reparto arretrato, dove la convocazione dell’oriundo Paletta esemplifica meglio di qualsiasi altra parola la situazione; a centrocampo un’unica, vera novità, quella del talentuoso Verratti; in attacco il capocannoniere della Serie A, Immobile, tenuto colpevolmente ai margini per poi gettarlo tardivamente nella mischia nel momento del bisogno,

Per giorni si dirà “Prandelli avrebbe dovuto portare Rossi, Florenzi, Destro, Toni, etc…“, ma la sostanza non sarebbe cambiata di molto: il confronto offre davvero poco in questo momento. Siamo a pane e acqua.
La crisi del calcio italiano parte da lontano, dall’inizio del nuovo millennio. Il trionfo di Germania 2006 ha nascosto per qualche anno un problema critico: i nostri club hanno smesso di investire sui vivai e sui giovani italiani. Negli ultimi 15 anni il nostro Campionato è andato gradualmente riempiendosi di stranieri perlopiù di basso livello. Attualmente la percentuale di giocatori ‘importati’ ha superato ampiamente il 50% ed è probabile che a settembre valichi anche la soglia del 60% (nei prossimi giorni vi proporremo un’analisi su questi numeri).  Molti di questi, alla prova dei fatti, si rivelano dei giocatori tecnicamente inadeguati. Ma nella mentalità italiana, il nome esotico stuzzica la fantasia dei tifosi e, magari, fa vendere qualche abbonamento in più. Mettiamocelo bene in testa: finché questo andazzo non verrà mutato, il trend della Nazionale non potrà che peggiorare. Il calcio italiano, annegato dall’onda straniera, sta morendo lentamente. Un’agonia che fa male. 

E dire che la crisi economica e la mancanza di liquidità dovrebbe invogliare i nostri club a costruirsi in casa i campioni del domani. Ma questo non accade. Le grandi squadre allevano giocatori per utilizzarli poi come pedine di scambio nel vortice del mercato, senza attuare un progetto lungimirante su scala pluriennale. Anzi non vi è alcun interesse ad intraprenderlo ed è questo che più ci preoccupa per il futuro. Il successore di Prandelli non avrà vita facile, con un bacino di italiani da cui attingere sempre più esiguo. Nel lungo periodo rischiamo davvero di sparire, salvo una soluzione come quella del calcio a 5, vincente con una squadra zeppa di oriundi. E’ questo che vogliamo?

Chiudiamo poi con il clima, indicato per troppi giorni come un alibi per gli uomini di Prandelli. Che si fosse giocato in Antartide o nel Sahara, non sarebbe cambiato nulla: i nostri giocatori, fisicamente, non sono più in grado di affrontare da protagonisti le grandi competizioni internazionali. Ci mancano velocità, dinamismo, resistenza, una preparazione adeguata a partire dalle scuole calcio. Non è un caso se gli avversari sembrano correre a velocità doppia, come non lo è neppure il livello dei nostri club in Europa, da ormai un decennio comparse in Champions (l’Inter del Triplete, nel 2010, era composta interamente da stranieri nell’undici titolare) ed Europa League.

Un discorso lungo, riassumibile in poche parole: quello italiano è ormai un calcio di seconda fascia. Con questa convinzione ci eravamo presentati in Brasile, con la medesima torniamo a casa con le ossa rotte. Passata la grande delusione, sui più grandi quotidiani sportivi torneremo a leggere pagine e pagine di calciomercato. Almeno il 90% delle trattative riguarderanno calciatori non italiani. Il terrore è che il peggio possa ancora venire.

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federico.militello@olimpiazzurra.com

1 Commento

  1. Alex23

    25 Giugno 2014 at 16:45

    Il nostro è sempre stato un calcio di “mestieranti” – come Sacchi ebbe a definirli: un calcio di trucchi, sceneggiate; un calcio essenzialmente codardo, subdolo, cinico e che potrebbe essere riassunto dall’asserto attribuito (erroneamente) a Machiavelli “Il fine giustifica i mezzi”.
    L’articolo menziona Del Piero e Totti, ma la Nazionale italiana non è mai stata la loro Nazionale: persino la vittoria in Germania è stata essenzialmente una vittoria della difesa: dei Cannavaro, dei Buffon, dei Zambrotta, dei Grosso – non delle conclamate star che quasi mai hanno brillato nel corso di queste manifestazioni. Prendiamo Del Piero: la mente corre immediatamente al bellissimo goal contro la Germania, ma il suo rapporto con i colori azzurri è stato tormentatissimo: prestazioni incolore, polemiche infinite, panchine, dualismi alimentati dai media, senza contare le circostanze in cui fu incredibilmente utilizzato nel ruolo di tornante. Già, perchè una delle caratteristiche distintive del calcio italiano (e la Nazionale rappresenta realmente il calcio italiano e l’Italia) è l’incapacità di contemplare la possibiltà che due “fantasisti” possano coesistere. Troppo rischioso! E allora segue quella serie infinita di disquisizioni filosofiche che ci accompagna fin dai tempi di Mazzola vs Rivera: uno dentro, l’altro fuori – o fuori posto (salvo buttarli tutti dentro quando la situazione appare disperata!).
    Rivera, Mancini, Zola, Totti e lo stesso incompleto Cassano sono alcuni dei grandi numeri 10 della storia nostro calcio – emblema della fantasia, dell’istinto, del genio incontrollabile – che solo in rarissime occasioni sono riusciti ad esprimere in Azzurro il loro talento cristallino. Unica eccezione Roberto Baggio: il “divin codino” è stato il solo grande fantasista ad aver espresso pienamente il suo talento anche in maglia azzurra (Certo, potremmo tornare all’epoca fascista, ma lasciamo perdere!). I fantasisti erano i giocatori “condannati” a tramutare in oro quel poco che si produceva: il 10 era il Salvatore deputato a riscattare un contesto assolutamente povero di inventiva, e finalizzato alla demolizione del gioco altrui piuttosto che alla creazione. Tutto è sempre stato basato sul contropiede, verticalizzazioni continue (ostinate), lanci lunghi – inutile perdersi in lunghe manovre, costruzioni particolarmente elaborate alle quali partecipano un pò tutti: palla all’unico centrocampista dotato di qualità tecnica, e poi di seguito alla punta centrale o al 10 della situazione. La squadra di Prandelli ha incarnato una contraddizione: da una parte una filosofia di gioco essenziale, rinunciataria, cinica – ormai radicata nella mente dei giocatori (e dell’allenatore); e dall’altra il tentativo di proporre un gioco più spavaldo, propositivo, corale, coraggioso, orgoglioso. Un’anima divisa in due, dunque. I propositi iniziali di Prandelli sono stati subito accantonati non appena si è entrati nel clima Mondiale. Propositi che da una parte si sono scontrati con l’incapacità tecnica degli interpreti ad attuare un calcio qualitativo; e dall’altra hanno dovuto fronteggiare la pesante eredità del nostro calcio “catenacciaro”e privo di principi – tranne la totale devozione al Dio Risultato. Questa doppia anima si è palesata sia nel sorprendente(?) schieramento ad una punta, sia nell’incertezza manifestata in gara dai giocatori combattuti tra il tentativo di proporre un gioco più coraggioso – esteticamante qualitativo – o rispondere al richiamo seducente del risultato come unico valore.
    Ritengo che il riferimento alla Spagna sia completamente errato: non solo perchè – tranne Pirlo – non saprei indicare quali siano i grandi palleggiatori del nostro centrocampo (altra scuola, altra filosofia!); ed inoltre trovo piuttosto ingiusto parlare di naufragio spagnolo per un gruppo che arriva dalla vittoria dell’ Europeo e del Mondiale. La Spagna ha pagato la non eccelsa stagione di giocatori fondamentali per la manovra iberica come Xavi e Iniesta e, probabilmente, si è palesato anche un certo (e giustificabile) grado di appagamento da parte di un gruppo costituito da giocatori che in carriera hanno vinto tutto: Mondiale, Champions League, Europeo, campionati nazionali. Inoltre, ho sempre considerato piuttosto sospetta e arbitraria l’interpretazione che tende immediatamente a considerare le disfatte di squadre che applicano una filosofia di gioco diametralmente opposta alla nostra, come attribuibili alla loro idea di gioco – queste stesse conclusioni vennero effettuate all’indomani della fragorosa sconfitta subita dal Barcellona contro il Bayern. Credo che sarebbe più onesto mettere sotto accusa la NOSTRA filosofia di (non)gioco. La filosofia spagnola rimarrà intatta: anzi è da augurarsi che un gioco basato sulla tecnica, sulla manovra corale, sulla creatività, sul coraggio, sull’orgoglio (e non sui trucchetti) abbia sempre a trionfare e generare sempre più proseliti.
    E’ difficile non riandare con la mente ad un bel libro scritto anni fa da Valdano (compagno di Maradona a Messico ’86) nel quale riflettendo sull’Italia si chiese: “da una parte l’Italia e il suo senso dell’estetica, l’Italia e le sue idee originali, l’Italia e la sua capacità di seduzione; e dall’altra l’Italia e le sue meschinità calcistiche. Se in tutto il mondo si gioca come si è, come diavolo è l’Italia?”
    Rispondiamo a questo. Poi potremmo rispolverare la solita questione vivai. I tempi sono comunque cambiati (il nostro non è più il miglior campionato del mondo), e giocare all’estero non rappresenta più un esilio, ma potrebbe costiture un arricchimento misurarsi con realtà calcistiche.
    Detto questo ci si deve chiedere che tipo di insegnamento ricevono i giovani; che tipo di spazio occupa la palla – quell’oggetto misterioso che non trova mai spazio nelle varie argomentazioni che intendono ricercare le cause di una disfatta. I nostri criteri di valutazione per stabilire la qualità o meno di una prestazione sportiva riflettono una visione razionalistica del calcio nel quale l’aspetto instintuale,
    fantasioso, coraggioso non trova più posto. Sembra che l’analisi tattica da sola possa assorbire intermente
    la lettura di una gara e costituirsi come unico criterio di valutazione. Ai giovani dei settori giovanili è consentito esprimersi, osare, sbagliare o fin da subito sono costretti nella gabbia del tatticismo esasperato?
    In Spagna si affrontano esibendo il loro repertorio tecnico: il gioco rappresenta il mezzo ideale per conseguire la vittoria. A viso aperto, con coraggio.
    In Inghilterra si ama un gioco rapido, combattivo, senza calcoli ne ostruzionismi di sorta.
    I contendenti si affrontano fino all’ultimo respiro.
    E noi?

    • Luca46

      25 Giugno 2014 at 18:27

      Hai scritto molte cose giuste. Pero’ Il catenaccio così volgarmente definito è un sistema di gioco che è valido così come il tiki-taka. Quello che conta è interpretarli bene. In questi mondiali l’Italia è stata tutt’altro che catenacciara. Il centrocampo dell’Italia è di ottima qualità. Mancano i Nesta e Cannavaro e i Vieri e Inzaghi. Quanto ai fantasisti oggi l’Italia non ne ha manco uno a certi livelli. Prandelli aveva giocato le qualificazioni in un certo modo. Poi le decisioni di Diamanti, i dubbi su Rossi, la brutta stagione di Giaccherini e Gilardino, i problemi di De Sciglio ed El Sharaawy, l’infortunio di Montolivo, la rinuncia a Maggio e Giovinco lo hanno mandato in confusione ed ha perso la bussola sul più bello. Il calcio italiano va rifondato per i problemi fuori dal campo. In campo pur in calo siamo sempre tra le formazioni migliori, non ho visto squadroni a questi mondiali. C’è poi il problema che se si vuole spettacolo ai mondiali bisogna giocarli in posti o periodi favorevoli al gioco e rivedere i calendari in modo che i campioni arrivino in condizioni fisiche buone.

      • Al

        25 Giugno 2014 at 23:58

        Sinceramente non mi ritrovo nel discorso di Alex23. L’ambiente del nostro calcio è oggi senza dubbio pessimo, ma non è vero che è “sempre stato” eccetera. La nostra tradizione calcistica è la più importante del mondo, insieme con quella brasiliana e argentina. Italiana è una delle squadre più forti della storia, il Milan ‘totale’ di Sacchi, ed erano gli anni Novanta, non l’anteguerra… Nel 2006 vincemmo il mondiale perché eravamo più forti degli altri, senza regali né catenacci di sorta. Stesso discorso agli ultimi Europei, dove siamo arrivati in finale perché più forti di tutti, tranne che della Spagna. Come dice Luca, l’Italia non è più catenacciara da un pezzo. Potrei dire che l’Italia è catenacciare quanto i tedeschi sono grossi e lenti, e gli inglesi giocano palla lunga e pedalare. Viva i cliché! Purtroppo il declino sportivo, come quello economico, non è istantaneo, è una tendenza che arriva da lontano e viene a lungo mascherata dal patrimonio che hai accumulato in precedenza, e l’Italia calcistica ne aveva proprio tanto. A un certo punto quel patrimonio di giocatori, di denaro, di credibilità finisce, e ti accorgi di essere sceso un sacco, e risalire la china sarà difficile. Ma questo non toglie nulla ai risultati ottenuti nel frattempo, che dimostrano quanto sia buono il tuo ‘patrimonio genetico’.

        • ale sandro

          26 Giugno 2014 at 21:40

          Quoto tutto il tuo intervento.
          La cosa paradossale è che sembrava quasi in certi momenti del quadriennio, che tutto il mondo del calcio della nazionale azzurra dovesse obbligatoriamente pensare che con Prandelli si fosse imbastita la prima azione e/o partita d’attacco della nazionale italiana in cento anni e passa di storia. Una cosa è giocare stile Grecia 2004 di Otto Rehhagel e in quel contesto, a mio modo di vedere non troppo dissimile a questo di Brasile 2014, altra cosa è giocare con intelligenza tattica, aspetto in cui siamo spesso stati Maestri. E non vuole dire in undici ai venti metri e contropiede, ma vuol dire capire quando è il momento di attaccare, di difendersi e dare equilibrio tra i reparti, ed è qui che entra in gioco il discorso dei fantasisti o “dieci” che in nazionale non brillano, eccetto Baggio (unico ad avere avuto una squadra costruita attorno a lui tra l’altro, cosa che non c’è stata per gli altri “10”). Non sono così tanti i campioni stranieri che si sono saputi sacrificare e adattare a giocare spesso fuori ruolo come i nostri,guarda caso portando a casa vittorie o finali/semifinali mondiali e/o europee, facenti parte di nazionali delle quali tutto si poteva dire, ma non che non avessero convinto a fine rassegna. Tenersi sempre due giocatori addosso , smarcare i compagni, prendere fallo e ammonizione degli avversari,fare cose “semplici” in determinati momenti, magari aiutare a raddoppiare in difesa ,e fare tutto questo reduci da infortuni gravi o non al meglio della condizione, non è come segnare con regolarità o fare le grandi giocate certamente,ma alla fine della fiera non solo si è vinto, ma si è giocato meglio degli altri tanto decantati come squadra, che nel calcio è l’Unica cosa che cosa. Che poi il post Germania 2006 abbia segnato uno spartiacque tra ciò che restava del calcio fino agli ottanta/novanta e primi anni zero, dove ancora contava molto l’equilibrio, e quello attuale dove le difese si aprono molto e le squadre devono necessariamente essere improntate per fare più gol possibili, posso essere d’accordo. Ed è proprio da lì che partono i problemi, perchè finito quel ciclo per tutti , non solo per l’Italia, si è visto un altro calcio dove pochissime altre squadre sono andate avanti, noi siamo rimasti fermi, continuando con senatori, non provando nemmeno a valorizzare i giovani giusti che avevamo ,ma invece puntando tutto magari su quelli che erano ben lontani dalla maturità che serviva.
          Forse sono tra i pochi che ritiene che le doppie dimissioni possano essere un’opportunità di cambiare totalmente pagina. Io penso che nonostante non siano affatto già da considerarsi campioni, molti under 26 possano costituire un gruppo da cui ripartire, bisogna anche avere un minimo di coraggio di provare le cose ,prima di mandarle allo sbaraglio o di non considerarle per niente.

    • Federico Militello

      26 Giugno 2014 at 00:06

      Non sono d’accordo su tutto, ma certamente sul fatto che Prandelli, come ho scritto, è andato in confusione, rinnegando il suo credo iniziale. Comunque complimenti per la dettagliata esposizione.

      • Luca46

        26 Giugno 2014 at 21:53

        Penso anch’io che Prandelli sia andato in confusione. Se posso aggiungere un ultima cosa vorrei dire che non mi è piaciuto il massacro di Prandelli. Ha fallito i mondiali, bene. Su dieci scelte a posteriori possiamo dire che ne ha azzeccata una, bene. Vogliamo però dire che ha ottenuto un miracoloso secondo posto agli europei? Vogliamo dire che con giocatori che non stavano in piedi ha ottenuto un terzo posto alla confederation? Vogliamo dire che le qualifiche al mondiale sono state le migliori di sempre (se non erro)? Vogliamo dire che è stato onesto nel dare le dimissioni? Ok ha sbagliato sul codice etico, che così come proposto non è piaciuto a nessuno e penso di poter dire che forse nessuno è riuscito a comprendere. Tuttavia ha cercato di apportare delle novità nei ritiri, stava cercando di allargare ai giovani istituendo dei gruppi di lavoro. Insomma ha cercato di fare del suo meglio. Quindi dopo che una persona si impegna, dopo che ha comunque ottenuto dei risultati apprezzabili io credo che il giusto metro di giudizio sia questo: “Prandelli grazie per il buon lavoro fatto fino a poco tempo fa di cui non vogliamo dimenticarci, negli ultimi due mesi hai combinato un disastro, grazie di tutto e arrivederci.”
        Infine vorrei il vostro parere su un dubbio che mi tormenta e su dei conti che non mi tornano. Non so come avete visto voi la Confederations Cup ma io l’ho giudicata appena sufficente, però ho visto tanta ma tanta determinazione. Ho visto goicatori uscire stremati dal campo come non mai. Questo mi aveva rasserenato sul Mondiale perchè ho pensato il gruppo c’è e ci sono i cosidetti. Poi visto questo mondiale non ho visto quella capacità di soffrire. Sempre a mio parere. Mi sto chiedendo il perchè. Vorrei sapere come la vedete voi su questa mia opinione.

  2. Luca46

    25 Giugno 2014 at 15:51

    Dimenticavo una cosa. Via gli stranieri dalle primavere.

  3. Luca46

    25 Giugno 2014 at 15:37

    Concordo con Al. Sarà difficile uscirne. Però consentitemi di dissentire su una cosa. La condizione fisica dei nostri non è inferiore alle altre. Li ho visti fisicamente meglio di Inghilterra ed Uruguay. L’errore è stato l’approccio col Costa Rica. Con l’Uruguay paghiamo una espulsione a mio pensiero ingiusta, ma ci sta, fa parte del gioco. Anche perché abbiamo creato zero.
    Mi permetto poi di fare un commento generale sul mondiale. Il più incerto ma anche il più brutto della storia. Dai problemi sociali, un organizzazione carente e un campionato che sembra il subbuteo. Qua non corre nessuno.

  4. Al

    25 Giugno 2014 at 09:46

    L’articolo secondo me centra il problema, non si può avere una forte nazionale se non si investe sui giocatori nazionali. Franco Baresi, Maldini, Del Piero, Totti arrivavano dalle giovanili, come Buffon, Pirlo, De Rossi. Non sarà facile uscirne perché se in un frullatore metti dirigenti bolsi e timorosi, mediatori avidi e praticoni, allergia alle regole, calciatori corrotti, tifo organizzato composto dalla feccia della società, è difficile che il frullato sia buono. Che giovani può attirare un contesto del genere, come li può crescere? E il calcio è un movimento troppo grosso per cambiare rapidamente.

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