Calcio
Mondiali Brasile 2014: Italia, i grandi assenti sarebbero serviti?
Gli assenti hanno sempre torto, in democrazia come nello sport, per il semplice motivo che mai e poi mai si potrebbe avere la controprova dell’efficacia di una loro eventuale partecipazione. Tuttavia, quando un fallimento sportivo è così plateale come quello della nazionale di calcio ai Mondiali brasiliani, viene spontaneo chiedersi se, in qualche modo, sarebbe potuta andare diversamente con due o tre giocatori lasciati a casa.
Il reparto messo – giustamente – al centro del mirino è l’attacco; la sterilità offensiva, l’incapacità non solo di segnare ma anche di creare occasioni da rete, rinchiudendosi perciò in quel tiki-taka fine a se stesso a centrocampo, ha colpito e deluso tutti gli appassionati. Di punte vere ce n’erano due: Mario Balotelli, presunto campione che all’alba dei 24 anni non ha ancora trovato una collocazione tattica; deve fare la prima punta o la seconda? Giocare vicino alla porta o qualche metro più indietro? E poi Ciro Immobile, che se con l’Inghilterra si è dimostrato volenteroso e combattivo, con l’Uruguay è stato assolutamente abulico e docile per la retroguardia celeste. A casa Giuseppe Rossi, Mattia Destro, Luca Toni. Sarebbe cambiato qualcosa?
Non lo sappiamo. Pepito è senza dubbio il più forte attaccante italiano e Prandelli lo sa bene; Pepito è anche il più sfortunato attaccante italiano, e tanta sfortuna genera insicurezza, paura, come si è visto nell’amichevole con l’Irlanda. La classe può essere infinita, ma se la testa, per certi versi anche comprensibilmente, ti dice di tirare indietro la gamba, di stare lontano dai contrasti, di evitare qualunque situazione di gioco pericoloso, allora la classe diventa inutile. Perché la sensazione era questa: che il bomber della Fiorentina fosse afflitto da una specie di “blocco psicologico“, che certo non passa in tre settimane di ritiro, e sul quale bisogna lavorare nei mesi estivi per potergli permettere di tornare a dare il suo enorme contributo alla Viola e in primis alla nazionale.
Mattia Destro aveva probabilmente già staccato il suo biglietto per il Brasile. Ma se è vera la giustificazione addotta da Prandelli – e anche in questo caso non abbiamo la controprova – secondo cui l’attaccante della Roma si sarebbe rifiutato di andare ai Mondiali a fare la riserva, è sacrosanta la sua esclusione. La nazionale è un privilegio, un onore, il coronamento di una carriera. Di presunti fenomeni (vedi secondo paragrafo) ce n’erano già abbastanza e in uno spogliatoio che non ha mai dato l’idea di grandissima coesione non sarebbe servito un altro elemento che non avrebbe accettato di stare in panchina.
Si arriva dunque a Luca Toni. E dell’eterno bomber del Verona sorprende come Prandelli non lo abbia mai e poi mai preso in considerazione. Età, antipatia personale, lontananza dagli schemi tattici? Forse un mix dei tre fattori. Forse, però, tra tutti Toni era quello che meritava di più di andare al Mondiale, anche se la sua esclusione era nota praticamente sin dall’inverno. L’unico dubbio riguarda le sue caratteristiche fisiche, perché nelle saune brasiliane un centravanti letale in area ma di poco movimento non avrebbe forse dato il contributo che in effetti non hanno dato né Balotelli né Immobile. Ma Toni, davvero, può essere l’unico rimpianto della nazionale azzurra, e per Alberto Gilardino il discorso è molto simile: fuori dalla nazionale già dall’autunno, forse la sua esperienza internazionale sarebbe servita di più dell’insicurezza di Rossi o dei presunti, dannosi atteggiamenti di Destro.
Perché la sensazione è che gli altri, nei ruoli mancanti, non avrebbero cambiato chissà cosa. Si è detto peste e corna di Paletta, ma fortunatamente la sua disgraziata performance ha coinciso con l’unico successo azzurro; Andrea Ranocchia avrebbe meritato il Mondiale, però sarebbe stato riserva dell’intoccabile terzetto di juventini che costituisce, ormai da parecchi anni, l’ossatura della nazionale. Florenzi? Sì, un cambio in più per gli esterni, dove c’erano già Candreva, Marchisio, i terzini, Cerci, Parolo. Elemento talentuoso, per carità, ma autore di un finale di stagione in calando che lo ha privato della convocazione. Pasqual, Maggio, Romulo? Idem come sopra.
Insomma, a casa non abbiamo lasciato Messi o Van Persie, Lahm o Benzema. L’impressione, sempre col beneficio del dubbio, è che poco sarebbe cambiato anche con gli altri nomi, perché il livello del calcio italiano è tristemente basso e lo si vede, stagione dopo stagione, dalle crescenti difficoltà che i club incontrano nelle loro avventure europee.
Alla fine, però, una grande verità l’ha detta Daniele De Rossi, un ragazzo che è mancato come il pane nella sfida di ieri: “Bisogna ripartire dagli uomini veri, non dai personaggi”. E questo è la dote che tutti i futuri azzurri, o quelli che non vorranno nutrire rimpianti per le esclusioni, dovranno dimostrare di avere prima ancora delle qualità tecniche.
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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com