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Tour de France: quando Gino Bartali salvò l’Italia dalla guerra

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Ci salvarono le zie, Don Camillo e Bartali” (Giovannino Guareschi sul turbolento 1948)

Gino Bartali e Fausto Coppi, ovvero Ginettaccio e l’Airone. Sono loro i simboli di un’Italia che cerca faticosamente di rialzarsi, dopo la triste esperienza della seconda guerra mondiale. Questi due campioni, acerrimi rivali senza mai sconfinare nell’inimicizia, rappresentano quei miti sportivi capaci di distrarre gli animi degli italiani dalla miseria, dalla distruzione e dalla desolazione che spadroneggiavano in quegli anni nel nostro Paese.
Già vincenti prima della guerra, le loro stelle brillano sempre più nella seconda metà degli anni Quaranta, quando le principali corse di un ciclismo che si rialza anch’esso faticosamente, risultano spesso essere un affare fra italiani (senza dimenticarsi di Fiorenzo Magni, chiaramente!). I loro epici duelli accendono le passioni dei nostri connazionali, letteralmente divisi in due fra coloro i quali simpatizzano per l’ormai Vecchiaccio, mito dello sport cattolico, e coloro i quali tifano invece per il Campionissimo di Castellania, considerato un’icona laica in quell’Italia ancora preindustriale.

Nato il 18 luglio 1914 a Ponte a Ema, periferia fiorentina, Gino Bartali cresce con la passione della bicicletta. Sin da ragazzo, correndo per la squadra dilettantisica Aquila, domina le corse riservate ai giovani, anche se talvolta preferisce lasciare la vittoria al compagno di fuga in cambio del premio spettante al primo classificato, in modo da poter convincere papà Torello che forse era conveniente continuare a pedalare. Religioso osservante, iscritto all’Azione Cattolica, passa professionista nel 1935 con la Frejus.  Nella Milano-Sanremo di quell’anno scatta sul Capo Berta e si appresta a vincere contro ogni pronostico, ma il vulcanico organizzatore della corsa Emilio Colombo lo affianca per qualche chilometro in modo da distrarlo e da permettere agli avversari più “titolati” di rientrare sullo sconosciuto fuggiasco.

E’ l’inizio di una carriera  folgorante: nel 1936 fa suo il Giro d’Italia corso con la Legnano, il marchio che da quel momento in poi segnerà indelebilmente la carriera di Bartali. Tuttavia, in quell’anno perde il fratello Giulio, vittima di un’emorragia interna a seguito di un tragico incidente in una corsa: uno strano scherzo del destino, se si pensa che anche il rivale Coppi perderà il fratello Serse a causa di una caduta in gara. Ginettaccio, preso dallo sconforto, inizialmente prende in considerazione il ritiro dall’agonismo, ma poi si convince della necessità di continuare a gareggiare anche in memoria dello sfortunato Giulio. Prima dello scoppio della guerra, riesce ad aggiudicarsi, tra l’altro, tre edizioni del Giro di Lombardia, un altro Giro d’Italia, una Milano-Sanremo e l’edizione 1938 del Tour de France.
Scalatore caparbio dotato di una resistenza fuori dal comune, durante il secondo conflitto mondiale Bartali continua ad allenarsi ed a disputare le poche gare superstiti, trasportando nella canna della bicicletta le foto necessarie alla creazione di salvacondotti per gli ebrei perseguitati da quel regime fascista, ormai prossimo al collasso, che il corridore toscano non ha mai dimostrato di apprezzare. La guerra lo priva degli anni generalmente più brillanti per un corridore, quelli poco prima dei 30; tuttavia,Ginettaccio si guadagnerà il soprannome di Intramontabile proprio per essere riuscito, nonostante la sosta forzata, a ritornare più competitivo che mai nei secondi anni Quaranta. La sua carriera si chiude soltanto nel 1954, con Bartali che riesce ancora ad aggiudicarsi un altro Giro d’Italia, altre due Milano-Sanremo, due edizioni del Giro di Svizzera e, soprattutto, il Tour de France 1948. Ecco, appunto, il 1948 in Italia…

Conclusa la seconda guerra mondiale, l’Italia che entra nel 1948, salutato il primo gennaio dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, è un paese più spaccato che mai. La rivalità non è più quella fra repubblichini e partigiani sfociata poi nella lotta per la liberazione nazionale, bensì una rivalità più “politica” e moderna che riflette al suo interno due visioni del mondo contrapposte. 
L’inizio della Guerra Fredda Italiana avviene proprio in quei mesi: da un lato la Democrazia Cristiana, dall’altro il neonato Fronte Democratico Popolare costituito da socialisti e comunisti. Oleograficamente, è l’Italia di Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, di un giovane Giulio Andreotti e di Pietro Nenni, dei personaggi di Don Camillo & Peppone creati dalla realistica fantasia di Guareschi, ritratti quanto mai fedeli della netta spaccatura politica tra la gente di quegli anni. Le prime elezioni politiche della nostra storia repubblicana si tengono il 18 marzo 1948, fra le pressioni delle nuove superpotenze statunitensi e sovietiche, ed una tensione sempre più crescente. Nella propaganda elettorale fa capolino l’uso strumentale della paura: da una parte, la coalizione di sinistra accusa gli avversari di essere succubi del Vaticano e degli Stati Uniti, dall’altra il partito centrista attacca l’alleanza PCI-PSI cercando di convincere gli italiani che la scelta non sia tanto fra due partiti di differenti ideologie, quanto tra Cristo e l’Anticristo, tra l’Occidente e l’Unione Sovietica. Minacce di scomuniche e toni apocalittici, con una chiara scelta di campo a favore della DC da parte di Pio XII, segnano un avvicinamento al voto teso come non mai.  A urne chiuse, i risultati elettorali segnano una schiacciante vittoria della DC che ottiene il 48,5% dei suffragi a fronte del 31% raccolto dal Fronte: Alcide De Gasperi, trentino di Pieve Tesino, viene di conseguenza nominato capo del Governo. Tuttavia, forti inquietudini continuano a serpeggiare per il paese, esplodendo drammaticamente alle 11.30 del 14 luglio, quando Antonio Pallante, un giovane siciliano legato ad ambienti dell’estrema destra, attenta alla vita di Togliatti in piazza Montecitorio a Roma ferendolo gravemente. In diverse zone industriali scoppiano tumulti e rivolte, saltano le comunicazioni radio, la CGIL proclama lo sciopero generale e il ministro dell’Interno Mario Scelba ordina repressioni spesso sanguinose nei confronti delle manifestazioni non autorizzate. Sono giorni di altissima tensione.  L’Italia è sull’orlo della guerra civile: tuttavia, i massimi dirigenti del Partito Comunista Italiano, in primis lo stesso Togliatti, la cui operazione chirurgica va a buon fine, invitano alla calma, rifiutandosi di cavalcare l’onda della protesta.

Ma cosa c’entra Gino Bartali con tutto questo?

La delegazione italiana che a fine giugno 1948 si presenta in Francia per prendere parte al Tour è priva di due atleti che sarebbero stati sicuramente fra i favoriti: Fausto Coppi e Fiorenzo Magni restano a casa, l’uno per scelta personale e l’altro perchè politicamente sgradito al di là delle Alpi.  La squadra diretta dall’ormai leggendario Alfredo Binda punta tutto su un Bartali già trentaquattrenne, che ben pochi considerano in grado di ripetere l’impresa di dieci anni prima. Non è facile per gli italiani presentarsi Oltralpe. La “pugnalata alla schiena“, parafrasando Franklin Delano Roosvelt, inflitta dal Regio Esercito all’Armée de Terre soltanto otto anni prima ha lasciato un profondo squarcio, soprattutto morale, che verrà suturato con grande fatica nel corso degli anni. Di conseguenza  i nostri corridori non sono propriamente i benvenuti, e più di una volta vengono fatti oggetto di insulti e invettive. La corsa scatta il 30 giugno e il traguardo di Trouville premia sorprendentemente proprio Ginettaccio, abilissimo nell’imporsi allo sprint sul belga Schotte e sul francese Teisseire. Il giorno successivo a Dinard, in Bretagna, è ancora un azzurro ad alzare le braccia al cielo, visto che il ligure Vincenzo Rossello si permette il lusso di battere Louison Bobet, da molti considerato il favorito numero uno per quella Grande Boucle. Tuttavia, la maglia gialla passa sulle spalle del belga Jan Engels. Le tappe successive vedono emergere lo strapotere di Bobet. E, nonostante Bartali riesca ad imporsi a Lourdes e Tolosa, il giovane bretone si difende nettamente meglio del toscano sui Pirenei, imponendosi a Biarritz e Cannes e conquistando sin dalla sesta tappa l’agognato simbolo del primato. Belgi e francesi attaccano a ripetizione per mettere definitivamente fuori gioco l’atleta di Ponte a Ema, che difatti il 13 luglio, praticamente a metà Tour, si ritrova con 21′ di ritardo da Bobet.

Buona parte dei giornalisti e dei fotografi italiani al seguito della corsa fanno rientro in patria, sia perchè per i nostri corridori non sembrano più esserci speranze di successo (“Ha 34 anni, è troppo vecchio per il Tour!”, scrivono proprio di Gino Bartali i nostri quotidiani), sia perchè il 14 luglio, festa nazionale francese e giorno di riposo per la Grande Boucle, c’è stato l’attentato a Togliatti ed il paese sembra precipitare verso la guerra civile.

La sera di quel giorno il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi telefona ai corridori italiani, pregando Bartali di vincere “perchè qua c’è una grande confusione”. Gli atleti azzurri, comprensibilmente preoccupati per le sorti dei loro familiari, vengono rassicurati dalle parole del premier e decidono di continuare a gareggiare nella corsa francese. Nello specifico, Gino è assolutamente motivato a ribaltare quella sfiducia totale che gli addetti ai lavori avevano dimostrato nei suoi confronti: le Alpi sono ormai prossime e il toscano vuole vincere, deve vincere, sia per se stesso, sia per cercare di distrarre e placare i roventi animi degli italiani.

Il giorno successivo la carovana si muove da Cannes verso Briançon, ad un passo dal confine con l’Italia. L’Allos ed il Vars, prime due salite affrontate in quella frazione, vedono gli attacchi decisi dal francese “testa di vetro” Jean Robic (era solito correre con il capo riparato da un vistoso casco protettivo), del belga Raymond Impanis e del franco-greco Apo Lazarides, con Gino Bartali che si limita a controllare. Il Col d’Izoard è un’ascesa di 16 km al 6,9%, che scollina a 2361 metri, là dove volano le aquile, per rendere sinistramente l’idea.

Sui tornanti di questa salita durissima, destinata ad entrare nella leggenda del ciclismo, l’atleta toscano saluta tutti e se ne va via, con una serie di micidiali scatti che fanno il vuoto alle sue spalle, sputando sabbia e fango in un clima rigidamente invernale. All’arrivo, il capitano della squadra italiana  precede di 6’18” Alberic Schotte e di 9’15” Fermo Camellini. Louison Bobet è andato alla deriva, accusando un ritardo di 19′ abbondanti: ora il suo vantaggio sull’Intramontabile, come ha intitolato il recente sceneggiato televisivo Rai dedicato alla vita del Ginettaccio, è ridotto ad una miseria, poco più di un minuto.

Questa impresa davvero epica emoziona il popolo italiano, ora più che mai con le orecchie attaccate alle radio per esaltarsi alle gesta di questo grande campione sul punto di ribaltare una classifica che sino al giorno prima lo dava per spacciato.

Il 16 luglio è in programma un altro “tappone”, 263 km da  Briançon ad Aix-les-Bains, attraverso il Galibier, la Croix de Fer,  il Grand Coucheron ed il Granier. Anche in quest’occasione Bartali è incontenibile, e nessuno riesce a tenere la sua ruota: il primo dei battuti, ovvero Stan Ocker, arriva a quasi 6 minuti, con il toscanaccio che riconquista quella maglia gialla già sua dopo la prima tappa a Trouville. L’Italia è in estasi per queste imprese, lo stesso Togliatti si compiace per quanto sta accadendo al Tour, e questi trionfi sportivi, unitamente ai ripetuti inviti alla calma da parte dei leader politici, creano un particolare mix che  permette al nostro paese di uscire gradualmente da una situazione drammatica: niente rivoluzione, niente guerra civile, si fermano anche i ferocissimi scontri di piazza, ritornando passo dopo passo alla normalità.

I quotidiani, prima impietosamente critici nei confronti del fiorentino, ora lo incensano per le sue prodezze, che non sono certo destinate a fermarsi. Gino vince anche a Losanna, infilando un filotto di tre tappe degno realmente dei più grandi campioni. Mentre a Liegi arriva il sigillo numero sette per il capitano, a Metz e nella tappa conclusiva di Parigi c’è gloria anche per il siciliano Giovanni Corrieri, fido gregario del Vecchiaccio, che nella sfilata finale ai Campi Elisi di Parigi conclude questoTour de France con 26’16” su Alberic Schotte e 28’48” sul francese Guy Laperbie, con Bobet quarto ad oltre mezz’ora. Per Bartali c’è anche la vittoria nella classifica speciale dei gran premi della montagna. La corsa transalpina si dimostra dunque un vero trionfo per gli azzurri: maglia gialla, maglia a pois di miglior scalatore e dieci successi di tappa: decisamente non male per una squadra che solo un mese prima sembrava una grottesca armata Brancaleone mandata allo sbaraglio senza i fenomenali Coppi e Magni, e capitanata da un atleta “troppo vecchio per vincere il Tour”.

Quando il 25 luglio Ginettaccio sale sul podio parigino, la situazione nel nostro paese si è definitivamente placata: quasi come se una mano invisibile avesse dato più di una spinta al sellino dell’atleta toscano che, cavalcando con maestria la sua Legnano, è riuscito in un’impresa entrata di diritto nella leggenda sportiva, oltre ad aver contribuito in modo decisivo a rasserenare una situazione sociale davvero inquietante. L’Italia è ad un passo dal baratro, e Bartali la salva pedalando. E, senza dubbio, nell’immaginario collettivo dell’epoca la sua vittoria al Tour de France ha rappresentato l’ancora di salvezza  per un popolo ormai vicino ad una drammatica deriva.

articolo dell’autore tratto da www.sportvintage.it

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