Rugby
Rugby, l’Italia fuori dal Sei Nazioni: ipotesi catastrofica o futuro rischio reale?
Non sarà la goccia che fa traboccare il vaso, ma la sconfitta contro l’Irlanda nel debutto del Sei Nazioni ha inevitabilmente lasciato gli ennesimi strascichi negativi per l’Italrugby. Checché ne dica il presidente Gavazzi (“Quella con l’Irlanda è stata una partita positiva. Abbiamo avuto una difesa importante, ha dichiarato ieri alla Gazzetta dello Sport il numero uno della FIR), il match dell’Olimpico è stato tutt’altro che positivo. Anzi. Certo, c’è stata la solita ottima difesa, ma il solo strenuo contenimento degli avversari porta ad un unico ed ineludibile risultato: la sconfitta, ovvero il leit-motiv dei quindici anni trascorsi finora dalla nazionale (rare eccezioni a parte) nel torneo più prestigioso del mondo ovale. E se un giorno le chance azzurre dovessero finire? In altre parole: nel lungo periodo, senza una vera svolta, il rischio di un’Italia estromessa dalla competizione potrebbe diventare reale?
Al momento ci sentiamo di escludere l’ipotesi, ma non crediamo di risultare fin troppo catastrofici se affermassimo che, con questi risultati protratti nel tempo, il tarlo potrebbe insinuarsi nel Comitato Organizzatore del Torneo. D’altronde, nel presente si piange ma sulle prospettive per il futuro non sembra ci sia molto da ridere in casa Italia. Il Mondiale in programma a settembre sarà probabilmente l’ultimo atto con la maglia azzurra per tanti senatori e colonne portanti nel primo decennio degli anni 2000, mentre due fuoriclasse come Parisse e Castrogiovanni potrebbero continuare per qualche altra stagione, ma certamente non in eterno. E, a quel punto, si aprirebbe una voragine attualmente incolmabile con il materiale umano a disposizione. Il ricambio generazionale si prospetta quanto mai burrascoso ed instabile (basti vedere il mismatch nel Sei Nazioni Under 20), vuoi per l’assenza di un progetto di crescita del rugby di base, vuoi per l’ostinazione da parte della Federazione nel continuare ad elargire fondi soprattutto per l’Alto Livello e per le fondamenta della piramide ovale italiana, senza cavare risultati di alcuno spessore né con le due franchigie celtiche, né con la nazionale come noto. Il campionato d’Eccellenza, teoricamente la fucina di talenti da inviare a Zebre e Benetton Treviso, è praticamente lasciato a se stesso, in una logica da foresta che ben rispecchia quanto l’Italia del rugby si sia adagiata sugli allori al momento dell’ingresso tra le regine d’Europa.
Solo a tratti, di fatto, franchigie e Italrugby hanno dimostrato di meritare un posto al fianco alle grandi del Vecchio Continente, mentre per la maggiore l’occasione di progredire e innalzare il livello del rugby italiano sin qui è stata sprecata, anche piuttosto malamente. Con la conseguenza di collezionare partite da sparring partner come quella di sabato, in cui un’Irlanda poco più che al 60% ha dominato senza troppi patemi gli azzurri e li ha costretti a rintanarsi in difesa per 70′. Nel punteggio, la partita è rimasta aperta fino all’ora di gioco, ma il 3-12 nascondeva soltanto un film la cui trama era già nota ai più fin dalle battute iniziali: difesa orgogliosa ed asfissiante (da applausi, va detto) per oltre un tempo, episodio incontrovertibile e match compromesso definitivamente. Copione rispettato in toto, ancora una volta. Per quanto tempo andrà ancora in scena, però, non è lecito saperlo.
Salvo rivoluzioni e svolte sia tattiche che sul piano mentale, per altri due anni sicuramente, visto che negli scorsi giorni il board del Sei Nazioni ha annunciato i calendari per i tornei 2016 e 2017 in cui ovviamente l’Italia figura (per inciso: esordio a Parigi tra un anno, in casa contro il Galles tra due), così come figurerà in molti altri Sei Nazioni dal 2018 in avanti. Una certezza, più che una speranza, vista l’appetibilità di una location come Roma e dei relativi sponsor e di una Federazione comunque politicamente ed economicamente ‘forte’. I soldi spesso parlano più di qualunque altra cosa, ma senza vittorie sul campo c’è ben poco da stare tranquilli. Qualcuno obietterà che anche la Francia ha impiegato quasi 50 anni per conquistare il suo primo Cinque Nazioni, ma Oltralpe hanno dimostrato a più riprese di avere tutt’altra cultura sportiva, oltre ad una radicata tradizione rugbistica, non proprio comune all’Italia. Dai transalpini, di fatto, si può solo imparare, mentre da qualcun’altro ci si può solo guardare le spalle, ovvero da Romania e soprattutto Georgia, quest’ultima vicinissima all’Italrugby nel ranking mondiale. A novembre, il coach dei romeni, Lynn Howells, ha lanciato una proposta forse indecente ma, nelle intenzioni, più che legittima: un Torneo con promozioni e retrocessioni, in cui la prima dell’European Nations Cup sfiderebbe in un play-out l’ultima del Sei Nazioni per contendersi un posto nella competizione di prima classe. Follia? Ora come ora, il divario tra georgiani e rumeni e il movimento italiano è ancora evidente, ma i primi sono in lenta e continua crescita, mentre i secondi in costante stallo. La strada, tuttavia, non è certamente percorribile nel breve/medio termine per motivi principalmente di appeal, quello che manca alle nazioni dell’Est, ma nel lungo termine la minaccia potrebbe diventare concreta. La situazione è grave ma, come si suol dire, non è seria. Almeno per il momento.
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Credit FotosportIT/FIR
ignorante
10 Febbraio 2015 at 16:48
…anche in questo caso mi scuso per la mia ‘ignoranza’, citando dati che invito poi a controllare.
Mi risulta che il 6 Nazioni ci renda PIU’ di quanto ci costa: senza cercare una bilancio Fir (che è pubblico, e da qualche parte sarà reperibile, in internet) credo che:
1) i soli biglietti di 200mila spettatori degli incontri in casa (stranieri compresi) ci portano svariati milioncini di €;
2) i diritti televisivi pagati all’estero dai broadcaster vengono riversati anche a noi dalle ‘Federazioni’ internazionali, anche se in Italia il 6N preferiamo vedercelo dal vivo piuttosto che in TV (anche se siamo ‘scamorze’, molti irlandesi hanno pagati bei soldini per vederci giocare sabato con la loro Nazionale, senza contare quanti sono venuti a pernottare, volare verso e indietro, mangiare, fare shopping ecc. ecc. a Roma questo week-end);
3) gli sponsor, tecnici o meno come Cariparma o Peugeot (sì, quello del furgone che Castrogiovanni fa finta di prendere a pugni) a loro volta portano denaro che la Fir (mi risulta) riutilizza ‘a pioggia’ sull’intero movimento (aiutando a pagare l’illuminazione o a migliorare docce e spogliatoi di campetti di periferia). Mi risulta che un ‘cane grosso’ come Adidas (sponsor tecnico che veste nel rugby solo gente come gli All Blacks, noi e pochissimi altri…) sia arrivato in Italia solo dopo il 2012 (=inizio era 6N all’Olimpico), cioè dopo aver intuito che il mercato sportivo italiano – se riempie stadi di 74 mila persone – è decisamente interessante.
Anche i proventi di coppe come Heineken, Amlin o della ‘serie Celtica’ sono maggiori – sommando TUTTO ciò che entra dagli impegni internazionali del rugby italiano – di quanto in realtà ci costano: è uno show, il vecchio ‘panem et circenses’ di uno ‘spettacol’ che anche noi vendiamo all’estero, anche se dobbiamo ricorrere a molti manovali stranieri per alzare i livelli della nostra ‘produzione’.
Se ci guadagniamo, perché dovremmo smettere? Semmai dovremmo diventare ancora più bravi. Una volta un allenatore (non ricordo chi…) disse, a chi lo criticava per una sconfitta, di non credere, il più incazzato era lui. Tutti (tifosi, allenatori, giocatori, presidenti di club o di federazione, persino l’uomo della strada che ama che la sua Nazionale vinca, anche se il pallone è ovale e non tondo) vorremmo far crescere il potenziale agonistico dell’Italrugby e del rugby intero, magari vincendo un 6 Nazioni (!) ma il problema francamente è il COME.
Se in questo momento la Fir è la seconda Federazione italiana come volume amministrato (dopo il calcio; ma non seconda come numero di tesserati, perché è superata, credo, da volley e/o basket), bene fa chi è messo lì a reinvestire più possibile per la crescita del rugby stesso, puntando a seminare, sconfitta dopo sconfitta, critica dopo critica, anno dopo anno, una futuro migliore.
Luca46
10 Febbraio 2015 at 22:33
Uscire dal 6 Nazioni sarebbe la fine. Non mi sembra che in molti altri sport si facciano sfraceli. Non è questa la strada e non sono soldi buttati ed in più è un ottimo metro di paragone. Sicuramente perdiamo ma credo che accumuliamo esperienza. Vorrei sfruttare la tua conoscenza del rugby per un parere se come tipo di gioco quello adottato da Brunel è congeniale a noi. Che dici?
ignorante
11 Febbraio 2015 at 17:49
Jacques è come un cuoco: cucina con gli ingredienti che si ritrova. Chi ha aragosta e tartufo riesce meglio di chi parte da una manciata di fagioli o da un comune pollo. Chi allena un club può sempre lamentarsi coi dirigenti che non ha i giocatori che gli servono, ma un CT della Nazionale deve farsi andar bene quel che trova (o gli fan trovare…) – considerando anche che i suoi tempi di allenamento e amalgama della squadra sono assai diversi da quelli di un allenatore ‘normale’.
La ‘scuola francese’ a noi può ancora servire (fino a poco fa la Francia era la prima forza ovale europea) e lui sicuramente qualcosa aveva fatto, sia prima, a Perpignan e altrove che da quando è arrivato in Italia. Quando vinse con la Francia nel 6 Nazioni di due anni fa, non so che misto di emozioni abbia provato a sentirsi chiamare ‘Monsieur Brunelli’ dai suoi connazionali sprezzanti, quasi fosse un traditore e un venduto agli italiani…
Certamente aveva fatto (anche) qualcosa nella testa dei giocatori, perché parlando con alcuni di loro ti dicevano che aveva suggerito, ad esempio, ‘delle opzioni di gioco’, così da aiutarli in certi momenti, più concitati, più critici. Certamente alcune idee che ha avuto sono state brillanti, soprattutto quando vinceva (assunto tautologico; non è valido infatti per quei terribili 18 mesi che vanno da fine 6N 2013 ai test match di fine 2014, quando abbiamo iniziato a risollevarci).
Il problema forse non è (solo) il tecnico che guida una squadra, ma i ‘cavalli’ che ti ritrovi a governare o che sei stato capace a scovare anche nei livelli inferiori, oltre alle due mezze-Nazionali che ti ritrovi in Italia, da mixare a quel paio di outsider come Castro e Parisse che puoi richiamare da Francia e Inghilterra quando ti servono. Il CT insomma, non l’unico responsabile se viene fatto un cattivo talent scouting o se i giocatori che hai sono di livello tecnico inferiore a quello degli altri paesi.
Il nocciolo centrale del rugby è la mischia, se il ‘peso’ (non solo fisico ovviamente, ma anche quello) manca, già perdi le conquiste nelle fasi statiche (touche comprese, dove devi mettere gli elementi giusti a lanciare e saltare, se li hai). Se la mediana non gira bene sei fottuto, ma le politiche di fabbricare numeri nove e dieci, magari dal piede d’oro come Dominguez – dopo gli anni in cui la FIR obbligava ad avere numeri 9 e 10 nostrani – sono state risolte per ora… con il maori Haimona!
In più, come ho detto, gli allenatori sono le prime vittime dell’indisciplina e dell’incapacità dei giocatori di rispettare le consegne e in linea di massima sono i primi a odiare le sconfitte e amare le vittorie (e se le ottengono ‘bruciando’ la squadra di quel momento pur di vincere a ogni costo e non investono per il futuro?).
Io ad esempio credo che Brunel dovrebbe investire molto di più sul gioco al piede (come è nata la mancata meta di Haimona, sfiorata da Parisse, sabato scorso con l’Irlanda?) e semplificare di molto le ‘opzioni’ che suggerisce ai suoi. Gli All Blacks applicano ad esempio un gioco molto basico: passaggi corti, molto sostegno, intelligente molto gioco al piede (basato su assoluta brillantezza atletica e fisica).
In ogni caso ripeto, le squadre a volte prescindono dagli allenatori: ci sono club di vertice che cambiano head coach ma mantengono, ad esempio, l’allenatore degli avanti, e chissà perché, continuano a vincere scudetti con la stessa continuità. In questo caso vale più il tecnico degli avanti o l’allenatore principale (se è vero il motto: ‘è la mischia che vince le partite, i trequarti decidono di quanto’)?
La tendenza del rugby moderno è, talento a parte, di rendere più leggeri e atletici gli avanti e più pesanti e solidi i tre quarti, per cui è sempre più difficile fare i Davide di fronte ai Golia stranieri. Se i club celtici comprano dall’emisfero boreale nuovi rookies che sembrano supermen (superatleti da 120 kg, eccezionali nell’uno-contro-uno, che corrono, placcano, hanno superiore visione di gioco ecc.) perché possono pagarli meglio, in virtù del superiore livello, anche economico dei loro campionati, tu come Commissario Tecnico, che peschi nel giro delle ‘seconde scelte’ (da cui magari recuperi qualche elemento eleggibili per la Nazionale come Vunisa o Haimona che non hanno nulla di italiano), umanamente, cosa puoi fare?
La domanda giusta, Luca46 allora forse è questa: siamo congeniali noi e la nostra Nazionale a un tipo come Brunel???
Luca46
11 Febbraio 2015 at 22:41
Io credo di no. Non ho la tua competenza ma da ignorante vero nel mio caso mi sembra di vedere un gioco dal quale non si ricava niente perchè non abbiamo le capacità richieste. In questi casi possono succedere due cose 1) continui a battere il ferro finché non lo plasmi e alla fine ci riesci 2) prendi un treno in faccia
ignorante
12 Febbraio 2015 at 09:56
…poi subentrano le passioni, che hanno radici profonde e, magari, mutuamente inconciliabili: se il mio dio-pallone è ovale e, ad esempio, il tuo è tondo (o è un dio-pallina perché ami il golf o il tennis ecc.), sarà naturale che io desideri una crescita del movimento rugbisti italiano e tu invece un suo potenziale ridimensionamento (se non vedi i risultati, misurabili, come dici, solamente con il palmarès).
Io ad esempio riscontro in me stesso un atteggiamento come il tuo (che non critico, anzi!) sul calcio, che non amo e di cui non mi sento minimamente parte: per me in Italia il calcio è sopravvalutato, a danno di tutti gli altri sport, e quindi bene faremmo a ridimensionarlo un po’.
A me sembra che il rugby in Italia sia cresciuto moltissimo negli ultimi 25-30 anni, anche se il differenziale con altre nazioni è ancora lungo da colmare. Da appassionato mi chiedo se si potrebbe fare altrimenti per velocizzare l’eliminazione del gap che, ad esempio, ci separa dalla Francia, paese che dovremmo raggiungere e, magari superare (ma francamente mi sembra che la risposta sia: no, stiamo seguendo la strada giusta).
Ai Gavazzi chiediamo di darci ora con l’Italia quel sogno che ha creato a Calvisano, dove ha fondato nel 1970 assieme a pochi amici e/o compagni di scuola una società che ha portato a vincere lo scudetto dopo ben 35 anni di vita (nel 2005, ma senza però smettere, perché poi ne hanno vinti altri tre in questi ultimi anni) accompagnandola a interessanti crescite impiantistiche, nel numero delle persone coinvolte e di quello degli eventi da vedere. Il problema è un altro: quando i Gavazzi o i Benetton (che ad esempio hanno disinvestito da basket e volley nel 2012) dovessero mollare, che succederà al rugby italiano – dove fino all’anno scorso ad esempio Prato e Viadana combattevano per le finali e ora, venuti meno certi motori di crescita, i club sono in sofferenza?
Non ho pretesa di convincerti che dobbiamo seguire la strada del miglioramento che già ha dato buoni frutti: quando giocavo io, tanti e tanti anni fa, col fischio che ci saremmo potuti sognare di giocare una partita di 6 Nazioni come quella di due anni fa contro gli inglesi al Twickenham o i test match come l’ultimo contro gli All Blacks a Roma (un primo tempo da brivido, furono 40 minuti in cui mi si ‘accapponavano i capelli’). O quello di Firenze 2012 contro l’Australia, quando gli Aussies buttarono fuori la palla impauriti per chiudere una rimonta fenomenale (tutte perse, ovviamente. Ma delle vittorie tipo Irlanda e Francia 6N2013 e altre non parlo perché diamo per scontato che le vittorie parlino da sé).
Al
11 Febbraio 2015 at 11:34
Guarda, va bene tutto ma passare vent’anni a seminare soldi pubblici per un futuro migliore lo trovo sbagliato. Ogni anno viene fatta una ripartizione delle risorse tra le federazioni, secondo me è giusto incentivare chi porta i migliori risultati, moltiplicato per l’entità della base. Se un’attività è ben gestita, i due parametri si alimentano a vicenda: ottieni buoni risultati, quindi attiri nuova base, che ti consente altri risultati. Vale a tutti i livelli, dalla squadretta di periferia all’intero movimento sportivo.
In effetti sarebbe interessante un approfondimento di OA sulla parte numerica dello sport italiano. Come chiude il suo bilancio la FIR, guadagno o perdita? Titoli vinti nell’anno (OA saprà selezionare quelli rilevanti)? E quanti tesserati ha attirato? Stessi numeri per pallavolo, scherma, nuoto, basket…
Magari qualcuno ci ha già lavorato e la redazione, senza rifare il lavoro, potrebbe commentare lo studio.
ignorante
11 Febbraio 2015 at 18:07
Come ho scritto gli stessi impegni internazionali (a partire dai biglietti, dal merchandising, dalle sponsorizzazioni, dai diritti tv stranieri, dai soldi riversati dalla Federazione internazionale ecc. ecc.) sono una manna per il rugby italiano, che chiude – che io sappia – ‘in pari’ perché riutilizza questi introiti per finanziare il rugby di base, cercando nuove crescite.
Il denaro riversato alla Fir dal CONI (pubblico per eccellenza) è adeguato a quello che il CONI stesso dà alle altre federazioni. Se dovessimo finanziare lo sport italiano solo in base ai risultati, nel 2006 (Mondiale di calcio vinto in Germania) nulla avremmo dato agli altri e tutto al pallone: ma poi cosa avremmo dovuto fare dopo le vergognose eliminazioni del Sudafrica 2010 e Brasile 2014. Fucilarli tutti? Nello sport, che si tratti di discipline, città o nazioni si va a anni e a ondate (chi si ricorda la valanga Azzurra o gli anni d’oro del tennis italiano di Panatta e gli altri? Perché il Rovigo non vince uno scudetto ovale dal 1990, pur essendo andato in finale 2-3 volte negli ultimi anni?).
Tornando al rugby io vedo una crescita costante negli ultimi 20-30 anni (di impianti, di prestigio, di eventi, di tesserati ecc. ) e le politiche adottate mi sembrano incoraggianti, considerando ad esempio il 6 Nazioni e i risultati che porta.
Da italiano appassionato di rugby, visceralmente convinto (ahimè!) che il calcio sia sopravvalutato, qui da noi, non posso che augurarmi di continuare su questa strada e arrivare in altri 10-20-30 anni ai livelli ovali degli amati-odiati cugini francesi…
Al
10 Febbraio 2015 at 13:55
Se tu sei un “ignorante” di rugby… qui non può più parlare nessuno. 🙂
Hai parlato di impresa e industria, un’azienda non aspetterebbe vent’anni per tagliare i finanziamenti a un’attività che non rende quanto costa, specie di questi tempi. Il fatto che in Italia tanti altri sport, anche senza considerare il calcio, attirino più giovani e portino più risultati, mi sembra proprio ragionare con lucidità.
Comunque da sportivo credo che la partita finisce quando perdi l’ultimo punto, l’anno è ancora lungo e vedremo come va.
ignorante
10 Febbraio 2015 at 04:31
Il rugby italiano deve recuperare un ritardo storico rispetto, ad esempio, alla Francia, perché da noi nacque nel 27-28 spinto dal partito fascista come sport ‘virilissimo’ (sorte che lo portò in disgrazia nel secondo dopoguerra e costrinse, per fare un esempio, persino la Polizia a sospendere l’attività ovale delle Fiamme Oro dal ’68 per questioni di ‘prestigio’ – cioè faceva apparire troppo ‘di destra’).
Oggi le questioni politiche fortunatamente sono altre. Gavazzi non è un santo, ma bisogna ricordare che dobbiamo a lui se siamo nel 6 Nazioni: lui si fece dare l’incarico da Dondi per trattare con le Federazioni internazionali e lui ci portò dentro, nel 2000, memore di quando se ne andava col suo mentore (l’altro presidente FIR bresciano, Invernici) a Parigi e Londra per vedere le gare di 6N, allora a noi precluse.
Le politiche adottate da Gavazzi nel 2012 spingono verso la crescita della base coi progetti delle Accademie, nella speranza di creare meccanismi di ‘fabbricazione’ di talenti giovanili con cui far crescere il movimento. Altre politiche sono quelle di guardare alle isole boreali come a un serbatoio di talenti (Vunisa ecc.), superando la fase che privilegiava solo l’Argentina (che viviamo ancor oggi, da Dominguez a Castro e Parisse, passando per Orquera ecc.) tenendo sempre presenti paesi come Sudafrica (Geldenhuys ecc.) e, ci mancherebbe, Australia e Nuova Zelanda (azzurri come Haimona e McLean oggi, ma prima Griffen o ecc.). Se vogliamo sono visioni neppure tanto originali, visto che francesi e anglosassoni ci soffiano proprio da quei serbatoi i talenti i migliori rookies mettendo sul tavolo contratti ben più sostanziosi dei nostri.
Il rugby moderno è un’industria: io ho visto di persona i 60mila della prima partita dell’Olimpico (con l’Inghilterra nel febbraio 2012, superati i limiti del 36mila del Flaminio) e sono rimasto a bocca aperta ‘sentendo’ live i 74mila della successiva Italia-Scozia di marzo. Quello che tiene noi nel carrozzone del 6 Nazioni è questo: se i Caucasian di Tblisi o i Wolves di Howell possono garantire i 200mila che facciamo negli anni dispari, quando cioè abbiamo tre gare in casa, allora avremo da preoccuparci.
Per ora questi stessi movimenti – dal punto agonistico – sono meno pericolosi di quanto crediamo (ma il ballottaggio per entrare in coppe come la Amlin o nel 6N potrebbe pure farci bene): il Tbilisi è stato battuto dal Rovigo a settembre, ma poi i polesani sono stati violentemente asfaltati da Cardiff a gennaio per 104 a 12 (avessimo avuto quel risultato da Italia-Irlanda di sabato 7/2 forse saremmo un tantino più preoccupati!).
I risultati dell’Italrugby sono necessari, ma non dobbiamo fasciarci troppo la testa. Nel 2013 abbiamo battuto in casa Francia e Irlanda e si era persino detto che la squadra di quell’anno puntava a vincere il Trofeo (!). Ora dopo un 2014 deludentissimo (compresi i test match boreali di giugno 2014 o quelli sudafricani pessimi del giugno 2013), se avessimo esordito vincendo con la Scozia, invece di essere suonati dai detentori irlandesi (che sono la terza forza rugbistica del mondo), magari qualcuno scriverebbe che i Mondiali di settembre a Londra saranno nostri.
I problemi sono semmai altri: la resa televisiva del 6 Nazioni da noi è miserrima, tant’è che Sky ha rinunciato (ma bene è stato fatto a farla arrivare in chiaro a canali come DMax, perché il ritorno può essere pubblicitario e di visibilità, regalando a tutti noi la possibilità di vedere le partite gratis). Gli altri media danno poco spazio al rugby. Giornali come la Gazzetta dello Sport – troppo appiattita sul calcio – parlano poco delle poche partite della Nazionale ma trascurano il campionato che assegna lo scudetto, l’Eccellenza, e persino le uniche due squadre professionistiche che abbiamo, Zebre e Benetton sono poco seguite (la stessa Gazza preferisce mettere oroscopi o articoli di cronaca e politica invece di parlare di sport).
Il rugby giovanile è sempre difficile da stimolare, tant’è che le scuole calcio sono piene di mamme in coda per iscrivere i figli (coi padri che sperano di aver generato dei piccoli Totti), mentre chi fa rugby di base deve inseguire faticosamente i bambini uno a uno, con costanza, fatica e dedizione.
La situazione impiantistica va fatta crescere, disseminando qua e là arene almeno da 4-5.000 posti per aumentare gli eventi: è una questione essenziale, perché senza sedi adeguate il rugby non cresce. Se non è chiaro ciò che ci tiene nel 6N lo ricordiamo: nel 2012 obbligano l’Italia a giocare in stadi sopra i 40mila posti (quindi avviene il passaggio Flaminio-Olimpico) e abbiamo il boom dei 75mila, che già avevamo intuito vedendo gli 80mila a Milano nel 2008 con gli All Blacks. Ma non fa bene certamente vedere, nel novembre 2013, che S.Siro e il Comune di Milano (spinte dai due club Milan e Inter) rifiutano i Blacks: in questo momento quello che ci ammazza – esclusa la parentesi fortunata di Roma e l’Olimpico – è un certo provincialismo e la latitanza dal massimo palcoscenico rugbistico di grandi città come Milano, Torino, Napoli o Palermo.
I Gavazzi e i Benetton sono industriali, trattano e devono trattare il rugby da industria, quasi fosse una forchetta o un maglione. Anche se il livello di qualità del nostro ‘prodotto’ è ancora più basso di quello inglese, neozelandese o francese, la ‘forchetta ovale’ italiana è ancora migliore di quella rumena, spagnola o caucasica.
A tutti noi appassionati, certamente non serve solo piangerci addosso e fare catastrofismi, ma riflettere con lucidità, scartando le cose negative e cercando di concentrarci sui fattori di successo dello sport che amiamo più di tutti gli altri.
Luca46
9 Febbraio 2015 at 21:47
Ritengo la proposta di Howells legittima e rapresenterebbe un motivo in più oltre al cucchiaio di legno per non arrivare ultimi. Inoltre darebbe più importanza all’ Europea Nations Cup. Certo Romania e Georgia in futuro potranno impensierirci ma il livello del 6 nazioni è davvero alto. Abbiamo visto come l’Italia pur facendo di tanto in tanto bella figura fatichi a stare a questi mlivelli di gioco. La crescita si è fermata, tuttavia ci manteniamo più o meno ad un buon livello per quella che è la nostra storia, solo che adesso non ci basta più. C’è da dire che la Federazione sta provando di innalzare il livello anche con scelte discutibili ed il compito è arduo.
Vi faccio una domanda: sbaglio a pensare che l’origine dei mali sia quello di non aver ancora trovato un organizzatore di gioco dopo Dominguez? Per una squadra che non ha calibri da 90 in grado da spaccare le difese avere uno che ti sposta il gioco sulla metà campo avversaria è un bel vantaggio. Per questo ritengo che l’Italia debba fare con queste squadre un gioco più sporco. Noi non dobbiamo fare spettacolo ma portare a casa la pagnotta.