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Rugby, Sei Nazioni ma non solo nel weekend: le (cento)cinquanta sfumature azzurre di un movimento al buio

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In altri momenti, avremmo parlato di sconfitta onorevole. Anche ragionevolmente, alla luce dei progressi compiuti rispetto al match giocato contro l’Irlanda e delle tre mete segnate a Twickenham, a suo modo un record per l’Italrugby. A sedici anni dall’ingresso nel Sei Nazioni, tuttavia, continuare a parlare di un determinato modo di perdere è emblematico della situazione di stallo che sta vivendo da diversi anni il movimento italiano. E’ pur vero che i trenta punti di divario tra inglesi ed azzurri sono apparsi bugiardi (ma quanto è stucchevole affermarlo), ma è altresì vero che se per l’ennesima volta, dopo quasi due decenni di confronti diretti con il gotha del rugby mondiale, si discute ancora di blackout italici allo scoccare dell’ora di gioco, controbattere alle tesi portate avanti dal tabloid inglese Times diventa piuttosto difficile.

L’autorevole penna di Gary Slot ha infatti attaccato duramente l’Italia e la sua presenza nel Sei Nazioni, senza andare troppo per il sottile: “La combattività non basta. L’Italia non può continuare a inanellare queste serie di pesanti batoste sistematicamente tra febbraio e marzo senza che gli organizzatori non pongano la necessità di avere nel torneo una squadra competitiva con le altre”. Slot, inoltre, ipotizza un sistema di promozioni/retrocessioni con il coinvolgimento di Romania e Georgia, ma senza tener conto delle ripercussioni politiche, di sponsorship e di marketing che avrebbe l’ingresso di una delle due nazionali dell’Est nel Torneo, come accennato anche da noi una settimana fa. Da questo punto di vista, l’Italia e Roma restano anni luce davanti a romeni e georgiani, condizione che permette agli azzurri di mantenere lo status quo ancora per molto tempo. Ma se si vogliono rendere più frequenti i 18-11 del 2013 rispetto ai 47-17 di sabato, la strada da percorrere è ancora piuttosto lunga, fermo restando le buone impressioni destate al cospetto della corazzata Inghilterra, comunque insufficienti a contenere la furia avversaria e ad evitare cali fisiologici. Cali che si rincorrono con regolarità quasi imbarazzante da sempre e, se agli inizi potevano definirsi accettabili, ora semplicemente non possono esserlo. Ne va della credibilità di una nazionale e dei giocatori, tra cui spiccherebbero anche individualità importanti oltre ai grandi senatori e agli ‘stranieri’, come Morisi, Sarto, Biagi, Gori e gli infortunati Favaro e Campagnaro. Ma il problema, al solito, è la base della piramide.

I magri (per usare un eufemismo) risultati collezionati da Treviso e Aironi/Zebre e i tanti difetti delle due franchigie celtiche non fanno altro che riflettersi inevitabilmente sulla nazionale, per un Alto Livello italiano la cui quantità di fallimenti è direttamente proporzionale ai soldi mal gestiti dalla Federazione per lo sviluppo. Eccezion fatta per il 2012/2013 del Benetton – e guarda caso, l’Italia ha vissuto una delle annate migliori -, la lega celtica non ha portato i benefici sperati ma, anzi, ha contribuito in particolare ad affossare l’Eccellenza e il rugby di base, da cui dovrebbero provenire i futuri giocatori della nazionale maggiore. E il weekend appena trascorso, di fatto, è lo specchio di quanto appena detto. Tra Treviso, Zebre e Under 20, l’Italia ha incassato 158 punti, ne ha segnati 13 e non ha minimamente impensierito gli avversari. Un dato statistico nemmeno troppo raro nei tanti weekend bui del rugby italiano, ma sconfortante dopo tutti gli anni trascorsi al fianco di Inghilterra, Francia, Galles, Irlanda e Scozia. E che offre un quadro generale decisamente esaustivo del movimento della palla ovale. Il posto assicurato nel Sei Nazioni non ce lo toglie nessuno e così sarà per diverso tempo, con alibi anche piuttosto convincenti. Quelli, però, che mancano per giustificare simili risultati. E senza progressi alla base, quel 158 non potrà che aumentare.

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daniele.pansardi@olimpiazzurra.com 

Foto: zebrerugby.eu

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