Ciclismo

Milano-Sanremo: il volo dell’Airone sul Turchino ad un passo dalla morte

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La carriera di Fausto Coppi è sempre vissuta sul filo che separa il mito dal dramma: risulta infatti difficile dividere nitidamente le straordinarie e inimitabili imprese sportive dalle vicende umane che lo hanno interessato, partendo con la prigionia in guerra, passando per un’incredibile sequela di infortuni, distruggendolo umanamente con la morte del fratello Serse sino ad arrivare alla prematura ed assurda scomparsa, poco più che quarantenne, perché nessuno ebbe l’accortezza di consigliargli un chinino per guarire dalla malaria.

La Milano-Sanremo 1946, primo di tre successi nella Classica di Primavera, intreccia tutto ciò in un modo quantomeno clamoroso. Coppi compie uno dei più significativi capolavori della carriera rischiando al tempo stesso la morte, come se fosse l’ennesimo presagio di una Nera Signora che troppo presto presenterà il conto della vita al campionissimo di Castellania.
La prima Sanremo del Dopoguerra è il momento di massimo tripudio del popolo italiano, allora ciclistico più che calcistico e pronto a dividersi in due, ricordando quanto avvenuto nell’ultimo Giro d’Italia primo dello stop: da una parte i sostenitori di Fausto Coppi, dall’altra quelli di Gino Bartali, senza trascurare una cospicua fetta di supporter per il “terzo uomo” Fiorenzo Magni. Quella Sanremo profuma di rinascita, di lavoro, di ricostruzione, di riscossa di un popolo piegato, avvilito, ma orgoglioso, tenace, propositivo; come peraltro di tutto questo sa l’intera rivalità tra Fausto e Gino, costituita da agonismo ai massimi livelli, azioni leggendarie e un sostanziale rispetto umano di fondo tra due fenomeni così diversi. Rispetto che c’era in quell’Italia e manca forse in quella di oggi.

Quella Sanremo va vinta dunque con un numero epico. Anche se non sappiamo cosa ci sia di studiato in quanto offerto da Coppi, pure all’avanguardia nell’ambito della preparazione e della tattica: la divisa celeste della Bianchi sulle spalle, il ventiseienne piemontese attacca a Binasco. Chi è dell’Hinterland milanese conosce bene questo popoloso centro sulla strada che scende verso Pavia: pianura lombarda, appunto, quando la corsa si conclude nel cuore della Liguria. Beh, Fausto è lì, in un gruppo di cacciatori in cerca di effimera gloria; poi ad Ovada, pochi chilometri da casa, resta con Lucien Teisseire, forte passista francese; infine lo stacca sulle rampe del passo del Turchino e si accinge a fare 145 km di fuga in solitaria, 286 complessivi all’attacco su 293 di corsa. Teisserie arriva al secondo posto ad un quarto d’ora, proprio Bartali è terzo a diciotto minuti. Chilometri e distacchi di un’altra epoca.

Nel mezzo, appunto, il dramma sfiorato, la morte che assume le sembianze di un treno: sulla statale dell’Aurelia, Fausto deve attraversare un passaggio a livello. Concentrato com’è sulla corsa, non dà peso alle sbarre abbassate e scende di bicicletta per inoltrarsi sulle rotaie; non si accorge, non può accorgersi che l’espresso della Costa Azzurra sta sbuffando a tutta velocità. Per sua fortuna – e per fortuna di quell’Italia e di tutti noi, perché altrimenti ci saremmo persi pagine di leggenda – se ne accorge un certo Carini, motociclista della staffetta al seguito della corsa: con un guizzo, lo chiude con la moto in un angolo, facendolo finire a terra. Sul momento, Coppi vorrebbe farsi giustizia; un secondo dopo, la pesante locomotiva si materializza davanti agli occhi del campione nel pieno della sua forza. L’Airone respira, respira profondamente; ringrazia lo sconosciuto amico, si rimette in sella e riprende a volare verso il traguardo di Sanremo. Il volo verso il traguardo della vita, invece, è rimandato di qualche anno.

Liberamente tratto da “Ciclismo storie segrete” di Beppe Conti, ed. EcoSport

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marco.regazzoni@olimpiazzurra.com

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