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Gigi Meroni, la “farfalla” beat
“Come passa il tempo, va dove tutto va, va e ci sembra lento, ieri era tanto tempo fa, tanto tempo fa”. Maurizio Vandelli, i Camaleonti e i Dik Dik nella loro struggente e malinconica Come passa il tempo del 1993 non potevano ricordare meglio le atmosfere degli anni ’60; anni in cui c’era davvero molta tensione nell’aria e non c’è dubbio che il “beat” Vandelli con i suoi Equipe 84 sia stato uno dei protagonisti di quel periodo. Proprio come un altro “beat”, il calciatore Gigi Meroni, la “farfalla” granata, scomparso prematuramente il 15 ottobre del 1967 investito da un’auto guidata dal futuro Presidente del Torino Attilio Romero. Meroni non è stato solo un fuoriclasse in campo, un autentico funambolo del dribbling ma anche un protagonista fuori dal terreno di gioco. Con il suo stile inconsapevolmente anticonformista, capelli lunghi e barba folta, compagno di una donna sposata, provetto artista e uno stile di vita eccentrico (si ricorda sempre la circostanza della gallina portata a spasso con il guinzaglio), Meroni ha incarnato perfettamente il senso di libertà che pervadeva l’Italia di quegli anni. Come ha correttamente scritto il grande giornalista Gianni Brera, Meroni “era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”. A raccontare la storia dei suoi ventiquattro anni pienamente vissuti nella loro intensa vitalità, ci hanno pensato lo scrittore Marco Peroni e il disegnatore Riccardo Cecchetti nel libro Gigi Meroni, il ribelle granata (BeccoGiallo Editore, 2010) una toccante graphic novel dove testo e fumetto si compenetrano a vicenda e dove si scorge, in ogni singola pagina del volume, un vero e proprio atto d’amore degli autori per il “beatnik” granata. L’opera di Peroni e Cecchetti comincia raccontando gli ultimi istanti della vita di Meroni per tornare magicamente indietro nel tempo e ritrovarlo bambino, cogliendo perfettamente “la vita al contrario” di Meroni. È bene subito sottolineare che uno dei grandi pregi del libro di Peroni e Cecchetti è quello di inserire le vicende calcistiche e personali di Meroni all’interno del periodo storico in cui visse la grande ala del Torino. Erano anni in cui determinate convenzioni sociali cominciavano a scricchiolare come testimoniato dall’inchiesta de La Zanzara nel 1966 sulle convinzioni delle ragazze italiane riguardo il divorzio e l’amore libero. Il miracolo economico aveva davvero seminato la libertà e nuove esigenze nascevano nel tessuto sociale e politico di quell’Italia. Solo l’anno prima erano apparse le prime minigonne di Mary Quant ed era nato il Piper Club con l’apparizione di artisti come Patty Pravo, Rita Pavone e gli Equipe ’84. E quest’atmosfera intrisa di voglia di nuovo e di rottura degli schemi non poteva non influenzare anche Gigi Meroni perché, in fin dei conti, “un dribbling è come un assolo di chitarra elettrica, è un discorso sulla libertà”. Nel viaggio all’indietro di Peroni e Cecchetti troviamo la “farfalla” granata alle prese con il mitico allenatore Nereo Rocco che, sulle prime, non riesce a inquadrare Meroni ma poi se ne innamorerà perdutamente. E troviamo Cristiana, l’amore della sua vita, conosciuta nel 1963, anno in cui Meroni milita nel Genoa. Le ultime, struggenti pagine di questa bellissima graphic novel, ci riportano al piccolo Gigi e a un’Italia rurale, alle prese con la ricostruzione postbellica e con le ferite della guerra ancora evidenti, “anni di risparmio contadino” ma dove Meroni diviene finalmente quello che aveva continuamente desiderato, “il bambino che aveva sempre sognato di diventare”. È il 24 febbraio 1943.
Abbiamo approfittato della gentilezza e della cortesia di Marco Peroni per rivolgergli alcune domande non solo sul suo libro ma anche per approfondire alcuni aspetti sia del personaggio Meroni che del lavoro svolto per arrivare alla realizzazione di questo volume.
Marco, queste pagine sono una libera riproposizione su carta dello spettacolo So much younger than today. Un viaggio nell’Italia di Gigi Meroni di Le Voci del Tempo (Marco Peroni, Mario Congiu, Mao Gurlino). Quand’è maturata la decisione di condensare l’esperienza teatrale nelle pagine di un libro?
“Davanti a una bancarella di libri, in cui sono stato attirato da un fumetto dedicato a Luigi Tenco. L’ho sfogliato. Poi mi sono accorto che i libri sulla bancarella erano tutti fumetti, dedicati per lo più alla storia italiana. Non avevo mai sentito parlare di BeccoGiallo. Ho saputo le prime cose direttamente dalla voce di Guido Ostanel, l’editore, che era lì davanti a me. Quello era il loro stand e credo d’averci messo meno di due minuti a proporgli l’idea di pubblicare un fumetto su Gigi Meroni. Sono intellettualmente impulsivo. Avevo visto i disegni di Riccardo una sola volta, non avevo mai pensato in vita mia a pubblicare fumetti e mi ero già impegnato ad andare a trovare l’editore a Padova per fare una proposta concreta. Ero già sbilanciatissimo. Mi piaceva l’idea di sperimentare qualcosa di nuovo, mi piaceva l’idea di dare alle nostre storie uno sbocco narrativo nuovo che le rendesse ancora più forti, che moltiplicasse le occasioni. Soprattutto, mi piaceva Guido, al volo. Nel mio, nostro modo di lavorare certe sensazioni contano parecchio. È il genere di lusso che mi voglio concedere. Da quando è uscito il fumetto su Meroni, poi quello su Olivetti, poi quello dedicato all’America di Springsteen, il disegno di Riccardo – sempre un po’ visionario – si è aggiunto alle nostre voci. Ci ha arricchito. Abbiamo lavorato sempre di più sull’immaginario e sempre meno sull’immagine, ci siamo dati come obbiettivo di raccontare sempre di più e spiegare sempre di meno. Insomma, se si impara a fare una cosa, una cosa qualsiasi, io trovo che quella cosa arricchisca anche tutte le altre che si sapevano già fare prima. È servito, ecco“.
Parliamo del Meroni anticonformista. Da questo punto di vista, non sembra che Meroni fosse consapevolmente un “portatore sano” di ribellione ma incarnasse più un personaggio in cerca di libertà dalle costrizioni del tempo e di gusto per la novità. Come dire, sembra più il ritratto di una persona intellettualmente libera.
“Da questo punto di vista non abbiamo azzeccato il titolo, che è più didascalico di quanto sia il nostro romanzo disegnato. Gigi era un ragazzo estremamente candido e libero, l’immagine della farfalla gli si adattava perfettamente. I suoi voli erano così leggeri, i suoi dribbling così meravigliosamente inutili a volte, che il calcio ne guadagnava in gioco a tutto detrimento dallo scherzo. Diceva Carmelo Bene che i bambini giocano mentre gli adulti, adulterati, scherzano. Aveva ragione. Gigi era un bambino, giocava un calcio che non aveva niente del parastatale, del Cral, del dopolavoro. Erano pennellate fatte sul campo. L’Italia di quegli anni era attraversata dal “miracolo” economico e stava cambiando. I giovani erano un nuovo soggetto sociale, che per la prima volta si distingueva per consumi, abitudini, musica, cinema, narrativa. Era un mondo che si staccava da quello degli adulti. Questo soggetto sociale ha iniziato a pensarla diversamente su un sacco di cose, negli anni Sessanta, e alla fine questa sorta di rivolta generazionale ha preso una consistenza politica, una certa consapevolezza teorica e poi è finito nella militanza. Sono volate parole grosse, poi botte, poi parole d’ordine e lotte, e poi ancora la reazione stragista dello Stato. Gigi è mancato prima che tutto si radicalizzasse, nel 1967. Il volo della farfalla si è fermato prima di diventare volantino. È questo che l’ha scaraventato nel mito. Il bimbo non fa a tempo a crescere, adulterarsi, a scherzare, e così giocherà per sempre. A volte il tragico e il bello si sfiorano, separati da un confine invisibile. Quando si raccontano storie così, il pericolo è finire dalla parte sbagliata della linea sottile. Bisogna stare alla larga dalle scorciatoie. Guardarsi dallo strizzare l’occhio, dal toccare di gomito. Dal compiacersi delle lacrime del pubblico“.
Gigi Meroni e George Best. Secondo te, un parallelo appropriato?
“Un parallelo inevitabile, ma inappropriato. Due psicologie completamente diverse. George era sfrenato, Gigi era leggero. George era incontenibile, Gigi era innamorato. George era pilota, Gigi un pittore. George era irriverente, Gigi era innocente. George amava le donne, Gigi amava Cristiana. George era bellissimo, sfrontato, aveva tutto e lo sapeva mettere sul tavolo da gioco ogni partita. Rilanciava, scommetteva, rischiava, sfidava, poteva vincere o perdere, era sempre e comunque un trionfo dello stile e dello spettacolo. Il calcio di Gigi aveva qualcosa di liberatorio ma anche di commovente. Era il riscatto di un corpo minuto in mezzo ai giganti della difesa avversaria, la palla messa all’incrocio con la parabola più arcuata e più lenta del mondo, era più semplicemente il gioco del pallone, era il bambino del cortile che scendeva in campo a San Siro e la combinava grossa, con Sarti fermo a guardare. Veniva voglia di fare il tifo per lui, a vederlo prendere calci in silenzio, e partire alla carica con quel fisico piccolo e velocissimo. Poteva dribblare cinque giocatori ma senza irriderne uno. Quasi suo malgrado. In ogni tocco di classe improvvisa e imprevedibile c’erano dentro anche le scuse per gli avversari saltati. C’era qualcosa di profondo che è rimasto. Il beat, certo. Ma anche l’oratorio, il genio educato, qualcosa di speciale che quando si affaccia è riconosciuto e protetto dagli altri. Ogni spogliatoio, ogni tifoseria l’ha adorato. La sua ansia di libertà diventava l’ansia di libertà di tutti, sotto forma di gioco. È vero che l’Italia ufficiale resisteva e non poco alle sue bravate (il look, i capelli lunghi, la nazionale rifiutata per non tagliarli, la gallina al guinzaglio, e via dicendo), è vero che l’Italia religiosa mal giudicava la convivenza con la sua Cristiana, sposata a un altro. Ma erano, potremmo dire, incidenti di percorso storico. Quello che ci resta oggi è molto di più che un’icona degli anni Sessanta. Ci resta un ragazzo campione gentile, bellissimo, sfortunato e splendido di cui potersi innamorare ogni volta che se ne ha voglia“.
A dispetto delle apparenze, Meroni era un uomo corretto e un giocatore disciplinato. Il suo rapporto con il calcio era come una storia d’amore: il piacere di giocare, di allenarsi, di divertire e divertirsi. Un vero e proprio artista della sfera. Oggi il calcio sembra più una questione di immagine, di comunicazione, di voglia d’apparire sui giornali. Da questo punto di vista, perché Meroni continua a esercitare un profondo fascino nell’ambiente calcistico? Quale può essere la sua “lezione”?
“In Gigi c’era prima di tutto il candore, il gusto per l’inutile, senza furbizie. C’era anche però una saggezza lontana, nella linearità di certi ragionamenti si sente la mano bella della provincia, della tradizione. Non bisogna ingannarsi. I capelli lunghi, i Beatles. Certo. Ma quando parlava di soldi, di ingaggi esagerati, di calcio sulla via della mercificazione, ho sempre avuto l’idea che lo facesse facendo riferimento non a un ribellismo giovanile contemporaneo, quanto a un senso della misura tipico dell’Italia contadina. Gigi vedeva il re nudo ma non aveva il gusto dell’invettiva. Cosa che forse avrebbe indispettito il re ancora di più. Che lo faceva sentire nudo ancora di più. Ha detto bene Nando Dalla Chiesa, Gigi era un anticonformista che sapeva rispettare le regole e sapeva stare in un gruppo. Questo lo rendeva allo stesso tempo libero e amato. Quello che mi stupisce, ancora oggi, girando l’Italia con questo spettacolo, è la tenerezza che ancora si sente accompagnare la sua figura. Era un mite, non un mito. Non si presta a essere impacchettato. Tocca corde più profonde. Parla a un pubblico come a insieme di persone. Più che la morte e la ribellione, e quindi la nostra morte e la nostra ribellione, Gigi riguarda la nostra infanzia. Ci mette più a confronto con quello che eravamo piuttosto che con quello che saremo. Parla a qualcosa di noi che resiste al di sotto delle nostre abitudini. La voglia di tirare un calcio a una pietra, e poi passarci tutto il pomeriggio. Ne siamo ancora capaci?“.
A cura di Simone Morichini
Disegno in foto di Riccardo Cecchetti
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