Rugby
I mali del rugby italiano: Eccellenza e Pro12, un flop tira l’altro
Dall’Accademia alla Nazionale, passando per l’Eccellenza e Pro12. Semplice, ma mai fermarsi alle apparenze. Il percorso da compiere per un giocatore di rugby italiano è tanto ben impostato gerarchicamente quanto ancora maledettamente inefficace per qualità, tempistiche e, in alcuni casi, meritocrazia. D’altronde, su una base dai meccanismi poco condivisibili e dalle fondamenta piuttosto fragili, costruire i piani successivi della piramide è sempre un’impresa piuttosto ardua. Il rischio è che si sgretolino lentamente ed in maniera inesorabile un po’ come sta succedendo al movimento italiano, che all’interno della sua lunga lista di problemi può serenamente aggiungere anche il massimo campionato nostrano e l’avventura delle franchigie in Celtic League.
Oltre alla quindicinale esperienza nel Sei Nazioni senza uno straccio di miglioramento, proprio il Pro12 sembra essere il simbolo del fallimento italico del decennio. Più di cinque anni fa, a marzo 2010, veniva ufficializzato l’ingresso di due squadre italiane nella lega celtica, al fianco di Irlanda, Scozia e Galles, con l’obiettivo di sensibilizzare la crescita del movimento e della Nazionale. Un passo importante per la palla ovale azzurra, perlomeno sulla carta. E, in effetti, giocare stabilmente anche a livello di club contro società di grande peso internazionale avrebbe potuto creare i risultati sperati dall’allora presidente federale, Giancarlo Dondi. Le responsabilità di ben figurare oltremanica erano state inizialmente addossate a Benetton Treviso e agli Aironi, di stanza a Viadana, ma questi ultimi hanno avuto vita breve: il tempo di disputare due stagioni (quattro vittorie totali) e i lombardi hanno dovuto dichiarare il fallimento.
Il rimedio progettato successivamente dalla Federazione, però, è stato anche il primo grande errore ‘celtico’ della stessa, ovvero le Zebre. Una franchigia sotto il controllo federale nata di fatto dal nulla, affibbiata alla città di Parma e senza uno straccio di identità. Anche solo pensare di legare ad un territorio una squadra di punto in bianco e dall’oggi al domani, di fatto, appare piuttosto deleterio. La FIR, tuttavia, non si è tirata indietro, ha compiuto un investimento coraggioso ma inesorabilmente senza alcun profitto. All’inizio dell’attuale quarta stagione, i bianconeri hanno raccolto dieci vittorie e ben settantacinque sconfitte, non hanno mai instaurato un rapporto solido con la città parmigiana e hanno pesato fino alla scorsa estate per quattro milioni all’anno sul bilancio federale, oltre a far sviluppare ben pochi giovani interessanti in ottica Nazionale. Le ragioni per appoggiare chi sostiene la presenza di un’unica franchigia in Pro12, insomma, non mancano di certo. Eppure, il presidente Alfredo Gavazzi continua a dichiarare apertamente di puntare addirittura ad una terza squadra celtica, con base possibilmente a Roma per far ritornare il grande rugby nelle grandi città. Utopia? Un eufemismo, considerando le enormi difficoltà nel creare anche solo una rosa competitiva per il campionato.
Già, perché anche il Benetton Treviso non può certamente dormire sonni tranquilli alla luce delle ultime due stagioni completamente da dimenticare. La profonda involuzione del club veneto affonda le radici nel tristemente noto tira e molla tra la FIR e il governo della Celtic League per il rinnovo della partecipazione italiana al Pro12 e, successivamente, tra la stessa Federazione e il Benetton. La telenovela si è conclusa soltanto nel maggio 2014, quando lo spogliatoio biancoverde era già stato scombussolato abbastanza dalla questione (e dall’addio di Franco Smith) e quando l’esodo verso l’estero era già cominciato senza che la società potesse porre un freno. Troppe le incertezze, enorme la mancanza di programmazione nonostante una stagione 2012/2013 da record e conclusa al settimo posto. E da un terremoto del genere riprendersi è una scalata all’Everest. Gli effetti, del resto, si vedono ancora oggi in un Treviso in piena ricostruzione, su cui aleggia un cauto ottimismo ma allo stesso tempo diverso scetticismo. C’è chi rivorrebbe il Benetton in Eccellenza, per ammettere una volta per tutte il fallimento in Celtic a chi non vede più alcun senso in tale avventura, ma anche per restituire prestigio ad un campionato italiano abbandonato a se stesso nell’ultimo lustro per tentare di raggiungere obiettivi rivelatisi non alla portata.
Come spesso accade in queste occasioni, per soddisfare le proprie ambizioni spesso ci si dimentica di chi è stato lasciato a casa propria. E’ il caso dell’Eccellenza, in caduta libera dopo l’ingresso nella lega celtica e diventato un campionato paragonabile a malapena alla Féderale 1 francese (la loro Serie C). La palla ovale transalpina è senz’altro un accostamento inopportuno, ma in questo caso necessario per comprendere ulteriormente lo stato di salute di una delle tappe obbligate per raggiungere l’Alto Livello italiano. Uno stato di salute che definire cagionevole è un generoso complimento nei confronti di un torneo senza appeal, senza pubblico sugli spalti e senza delle strategie di marketing degne di questo nome alle proprie spalle. E pure senza soldi, visto il recente fallimento dei Cavalieri Prato, le difficoltà economiche di Viadana dello scorso anno e quelle non indifferenti di L’Aquila. Il basso livello dei match, poi, è la ciliegina sulla torta, malgrado in molti continuino a voler tenere delle grosse fette di salame sugli occhi. Ma non finisce qui.
Perché In questo lugubre contesto si barcamenano i tanti ragazzi provenienti dalle Accademie, troppo spesso anche bistrattati e a cui spesso viene preferito uno straniero soprattutto nei ruoli più delicati, con la conseguenza di bloccare e ritardare la loro crescita in un momento fondamentale della propria carriera. Ne segue poi un inevitabile ritardo nel salto in Celtic League, dove la storia non fa altro che ripetersi. Altro straniero di turno (non necessariamente forte), presenze con il contagocce ed impossibilità di fungere da ricambio concreto per la Nazionale maggiore, sia per lo scarso utilizzo che per l’enorme differenza tra il livello ‘eccellente’ e il livello celtico. Un passaggio in cui è piuttosto facile rimanere invischiati, senza possibilità di venirne a capo. Una vera riforma per quanto riguarda l’Eccellenza (fondamentale, ça va sans dire), oltretutto, non è stata nemmeno presa in considerazione. Portare il numero di squadre da dodici a dieci è un piccolo passo, ma che non può evidentemente bastare. Anzi. Dai piani alti urge ben altro, anche piuttosto alla svelta.
– I MALI DEL RUGBY ITALIANO (PRIMA PARTE): LE ACCADEMIE NON SFORNANO TALENTI
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Foto: zebrerugby.eu