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Atletica: i tanti intrighi del “caso Italia”, coinvolti anche altri sport

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La notizia della richiesta della squalifica di due anni per ventisei atleti italiani ha come sempre provocato reazioni spropositate da ambo le parti: da un lato, chi per semplice tifo tende a giustificare qualsiasi caso coinvolga gli azzurri, dall’altro, chi senza capire molto della vicenda si è subito espresso per la condanna in pubblica piazza di tutti gli sportivi coinvolti.

In realtà, il caso è più complicato del previsto, e per questo vale la pena di rendere più chiari alcuni punti. Innanzi tutto, nessuno degli atleti coinvolti è mai stato trovato positivo ad un controllo antidoping: la richiesta di squalifica sarebbe, infatti, per aver mancato almeno tre controlli nell’arco di diciotto mesi, conformemente a quanto previsto dal regolamento internazionale. La vicenda, però, sarebbe viziata da un quiproquò tutto all’italiana, ovvero ad un malfunzionamento del sistema di localizzazione degli sportivi messo in piedi dal reparto antidoping del CONI, preposto a sorvegliare gli atleti in maniera indipendente dal sistema Adams, quello che utilizza invece la WADA (Agenzia Mondiale Antidoping). Questo bug non avrebbe dunque concesso ai diretti interessanti di segnalare regolarmente la propria localizzazione geografica, venendo dunque a mancare ai propri doveri.

E i trentanove per i quali è stata richiesta l’archiviazione? La discriminante sembrerebbe essere puramente tecnica: questi atleti, infatti, si sarebbero presentati presso il tribunale di Trento, che aveva dato il via all’inchiesta, la nota indagine “Olimpia”, oramai quattro anni fa, muniti di avvocato. Gli avvocati avrebbero dunque ravvisato dei vizi procedurali, richiedendo l’archiviazione, mentre ciò non è stato possibile per coloro che non hanno avuto l’accortezza di presentarsi con un legale. La procura antidoping del Coni non ha potuto dunque far altro che prendere atto dell’accaduto e richiedere la squalifica per i ventisei, semplicemente applicando il regolamento.

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