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Ciclismo
Ciclismo, pista e mountain bike: l’integrazione tra le diverse discipline resta problematica in Italia
Peter Sagan e Fabio Aru vengono dal fuoristrada, Bradley Wiggins e Mark Cavendish dal ciclismo su pista. Quattro esempi, e se ne potrebbero fare molti di più, che testimoniano come l’alternanza nella pratica delle diverse specialità del ciclismo.
Inutile nascondersi dietro un dito: la strada attira tutto e tutti verso di sé, comprese anche quantità di denaro enormemente maggiori rispetto a pista e MTB/ciclocross. Ma non per questo, specialmente nell’attività di base, andrebbe sottovalutata la possibilità di sviluppare tecniche specifiche di altre discipline che in un futuro potrebbero aiutare anche nel ciclismo su strada. In questo modo non ne beneficerebbe solo il ciclismo su strada, e i risultati lo dimostrano, ma anche quei settori che faticano ad avere una base di praticanti larga e solida.
Attualmente, sia la pista che il fuoristrada in Italia latitano. Sullo Stivale esiste al momento un solo velodromo coperto in quel di Montichiari: troppo poco per uno sport che dovrebbe essere praticato 12 mesi l’anno e con prevalenza nei mesi invernali considerando la collocazione di Coppa del mondo e Mondiali. In campo internazionale, il movimento nostrano non può che difendersi con la dedizione di poche eccellenze, senza però riuscire ad emergere nei settori più specifici (come la velocità). Non basta un Elia Viviani, eccellente stradista e pistard di alto livello nell’omnium, per parlare di integrazione.
Discorso simile nel mondo del fuoristrada. Spicca, ovviamente, il nome di Marco Aurelio Fontana. Fenomeno della disciplina e vincitore di una medaglia di bronzo storica a Londra 2012, è anni luce avanti, e non solo in termini di pura prestazione sportiva ma per tutto quello che riguarda comunicazione e marketing (e di conseguenza entrate economiche), rispetto agli altri atleti della nazionale. Praticare ad alto livello sia l’attività su pista o in fuoristrada che l’attività su strada è francamente impossibile, ma iniziare a costruire un movimento con una base può permettere di trovare atleti che in futuro possano decidere di dedicarsi a questa fascinose e troppo spesso dimenticate specialità.
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gianluca.santo@oasport.it
Foto: Fabio Pizzuto
ale sandro
27 Gennaio 2016 at 18:05
L’integrazione c’è sempre stata nel secolo scorso, ma c’è sempre stata anche la specializzazione. Arrivati a un certo punto della carriera si opera una scelta, senza dimenticarsi dell’altra “opzione”.
Ritengo importante lavorare sulla progettualità delle carriere di quegli atleti giovani che intendono fare pista e strada, dando però una preferenza alla prima. Perchè è questo l’argomento: far crescere una nazionale sia nel settore velocità che “endurance” senza vedere disperse le risorse che finiscono nei vari team su strada e si dedicano solo a quello , per ovvie questioni “alimentari”.
Si deve creare un sistema virtuoso in questa direzione, e un cosiddetto Club Italia di giovanissimi 14-16 anni non può che essere positivo,in quanto ci si potrebbe dedicare per 6-8 anni all’attività su pista, con alcune puntate su strada, dando ovviamente la priorità alla pista come già detto. Sinceramente dalle ultime convocazioni soprattutto al femminile ,si sta cercando di fare questo, ma non si deve mollare la presa.
Spero non ci siano di mezzo problemi ad esempio con la squadra BePink, per quanto riguarda alcune non convocazioni negli ultimi raduni di Elena Bissolati, il miglior prospetto del settore velocità che abbiamo. Una appena 19enne che con la compagna Vece valeva da junior le prime 10-12 piazze nella velocità a squadre, che è prova olimpica.
Il vero problema è che si inizia a fare sia pista che strada ma non essendoci proposte e/o progetti allettanti i pistard mollano poco alla volta ,mentre questo genere di disciplina sportiva necessita preparazione specifica e costante. Basti vedere Francesco Ceci che da solo (intendendo come valori azzurri nel settore velocità), così come era solo il decennio scorso Roberto Chiappa, sta tentando di qualificarsi nel keirin per Rio, praticamente dedicandosi alla pista in gran misura. E per il momento ci sta riuscendo.
Riguardo il cross e la mountain bike c’è già una situazione di continuità, che ricorda vagamente il pattinaggio velocità su ghiaccio in inverno e a rotelle d’estate. Sarebbe auspicabile lo stesso progetto per i giovani che ho già accennato per la pista, tenendo presente che cross e pavè, per fare giusto un esempio, non vanno di sicuro in disaccordo.
Luca46
27 Gennaio 2016 at 17:17
Almeno per la pista, dati i trascorsi gloriosi, l’Italia che resta una delle potenze del ciclismo deve fare di più e deve tornare ad un livello di primissimo piano.