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Lotta
Storia delle Olimpiadi: l’incredibile vita di Enrico Porro, il discolo di Porta Ticinese che atterrava chiunque
L’Italia si presentò ai Giochi di Londra del 1908 (che in un primo momento ci erano stati affidati, ma noi declinammo l’invito ritenendolo un impegno troppo “oneroso”) con 60 atleti, ma si era dovuto faticare parecchio per mettere insieme una rappresentativa ufficiale. Una prima richiesta di aiuto al Governo non ottenne praticamente risposta; la Marina offrì alcune navi carbonifere per il trasporto del materiale, il Ministero della Guerra un contributo di ventimila lire per la partecipazione dei cavalieri che avrebbero dovuto prendere parte ai concorsi di equitazione (che non vennero mai disputati). Inoltre, ci fu una riduzione del 60% sui biglietti di viaggio fino alla frontiera e, solo in extremis, il Governo inizialmente riluttante comunicò di aver stanziato venticinquemila lire per la spedizione inglese.
A Londra conquistammo due ori, uno con il mitico ginnasta modenese Alberto Braglia e l’altro nella lotta greco-romana, categoria pesi leggeri, con l’irrequieto Enrico Porro, un discolo di Porta Ticinese – Milano (nato a Lodi Vecchio nel 1885) che la madre fece imbarcare come mozzo per la disperazione, presa sempre più com’era dal suo lavoro nel ristorante di famiglia, desiderosa di correggerlo almeno un po’, in parole povere: toglierselo dai piedi… Ma lui scappò da Buenos Aires, tornò nel capoluogo lombardo a “menar le mani” dappertutto, fino a che non riuscirono a farlo sfogare sul Paviment de giass, la palestra del rione così chiamata poiché d’inverno vi faceva freddo a tal punto che la leggera patina d’umidità sul pavimento si congelava, facendolo scricchiolare come se fosse di ghiaccio.
Si specializzò nella lotta greco-romana, quell’antica arte che permetteva solo le prese con le braccia e non sotto la cintola, richiedente abilità e forza in grande quantità. Nella sua cerchia, ben presto si fece una riverita fama, poiché in allenamento riusciva ad atterrare gente ben più grossa ed esperta. Alto poco più di un metro e mezzo, biondo, occhi azzurri, orecchie a sventola, dotato di un possente torace e muscoli d’acciaio, a diciassette anni partecipò al suo primo torneo ufficiale, a Legnano, conquistando la medaglia d’oro. Si trattava di una competizione di livello, tanto che “La Gazzetta dello Sport” ne riportò il resoconto definendo Enrico “il ragazzo che atterra gli uomini”.
Per riuscirci, aveva messo a punto una tecnica che lui stesso chiamava souplesse, che consisteva nell’attendere l’assalto dell’avversario per poi prenderlo in controtempo con una scaltrezza che gli veniva naturale e infine rovesciarlo. Porro aveva carattere, mordente e la giusta cattiveria per imporsi in gara; la lotta gli piaceva, poteva sfogare la sua esuberanza e sarebbe andato anche alle Olimpiadi di Saint Louis nel 1904, se non gli fosse stato impedito dal servizio di leva (in Marina durava cinque anni!), assolto da imbarcato sul cacciatorpediniere “Castelfidardo”. L’anno successivo partecipò al Campionato Italiano fra i pesi leggeri, la minore delle quattro “classi” in cui erano divisi gli atleti all’epoca; un così ristretto numero di categorie rendeva possibili degli impari incontri fra lottatori con un’enorme differenza di peso (anche 10 kg o più), cosa che capitò anche a Enrico Porro, il quale con i suoi 60 kg dovette a volte lottare con avversari di 68 kg. Ma questo handicap non gli impedì di vincere il suo primo alloro nazionale. Aveva venti anni, nel 1906 si riconfermò Campione d’Italia e conquistò il titolo europeo.
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