Canottaggio

Storia delle Olimpiadi: l’inattesa vittoria del ‘quattro con’ azzurro ad Amsterdam 1928

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La prima medaglia d’oro olimpica del canottaggio azzurro arrivò nella settima edizione dei Giochi (Anversa 1920), grazie al “due con” della Società Bucintoro di Venezia composto da Ercole Olgeni e Giovanni Scatturin, timoniere il giovane Guido De Felip. La seconda, otto anni più tardi, sempre nel nord-ovest dell’Europa continentale: una vittoria impronosticabile, figlia di una storia incredibile…

10 agosto 1928, Giochi Olimpici di Amsterdam. Il medagliere italiano riceveva l’ultimo oro della sua spedizione dal canottaggio, segnatamente dal “quattro con”, che sbaragliava tutta la concorrenza scesa nell’acqua scura del canale di Sloten, a 7 km dalla capitale olandese. I nostri cinque eroi provenivano tutti dalla Società Nautica “Pullino” di Isola d’Istria e si chiamavano: Valerio Perentin, Giliante D’Este, Nicolò Vittori, Giovanni Delise, Renato Petronio, quest’ultimo fondatore-presidente-segretario-cassiere del Club e allenatore-timoniere in quell’occasione. L’età media dei quattro irriverenti vogatori era di poco superiore ai 19 anni, una barca juniores, in pratica.

Quel giorno si realizzava, su tutti, il sogno di un minuto e timido impiegato dell’Azienda del gas di Isola d’Istria, seppure nativo della confinante Pirano, che tre anni prima aveva cercato e messo in barca, uno ad uno, i quattro teenagers che ora potevano fregiarsi dell’imperituro titolo di “olimpionici”. Partendo dal nulla, e in pochi mesi di duri allenamenti serali, il quasi quarantenne Renato Petronio era riuscito testardamente a costruire uno dei più solidi equipaggi che il canottaggio italiano possa ricordare. Come aveva fatto?!

Era il 10 settembre del 1925 quando Petronio aveva lanciato l’idea di fondare ad Isola d’Istria una società di canottaggio, prendendo il nome in prestito dal sommergibile sul quale, a fine luglio 1916, si era immolato l’irredentista istriano Nazario Sauro e che portava a sua volta il nome di un altro eroe italiano della Grande Guerra: il tenente Giacinto Pullino. Secondo passo, aveva individuato i quattro ragazzi che gli occorrevano, quattro figli del popolo, come si diceva allora: gli agricoltori Nicolò Vittori e Valerio Perentin, il carpentiere Giliante D’Este e il muratore Giovanni Delise. In quattro non sommavano ottant’anni e nessuno di loro aveva mai preso prima un remo in mano… Le prime barche utili, di seconda e terza mano ovviamente, vennero acquistate dalla “Canottieri Nettuno” di Trieste, quattro jole di mare, a due e a quattro vogatori.

Ma, per cullare dei sogni colorati e leggermente più a forma di cinque cerchi, serviva qualcosa in più. Di qui, l’ulteriore acquisto di un outrigger da allenamento, ceduto dalla “Cerea” di Torino e ribattezzato “Garibaldino”. Tutte mosse ben ponderate, in linea con le modeste disponibilità di Petronio, ma appena sufficienti a fronteggiare la concorrenza di casa, perché per vincere all’estero e mirare alla partecipazione olimpica bisognava innanzitutto battere le altre società italiane aventi lo stesso obiettivo. La selezione nazionale di Pallanza, la gara che avrebbe designato il circolo al quale affidare la difesa dei colori azzurri nei Paesi Bassi, mise Petronio e i suoi quattro giovani moschettieri del remo di fronte al formidabile equipaggio della “Argus” di Santa Margherita Ligure dei tre fratelli Ghiardello e dell’esperto timoniere Ugo Giangrande, gente che nel biennio 1926-1927 aveva stravinto il titolo europeo. E che ora reclamava l’onore di “volare” ad Amsterdam.

Le regole della Reale Federazione Canottaggio erano chiare e ferree: niente equipaggi misti ai Giochi o agli Europei, ma solo l’orgoglio dei circoli, ergo tutti gli uni contro gli altri armati a disputarsi il privilegio e l’onere di rappresentare l’Italia alle Olimpiadi. L’esito finale di quella sportiva guerra civile in acqua non fu mai in dubbio, in realtà: i liguri vennero nettamente battuti e gli istriani partirono alla volta di Amsterdam per il loro esordio internazionale. Mai prima d’allora avevano misurato la loro forza all’estero…

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Ai Giochi, fu un’apoteosi. Addirittura più comoda di quanto loro stessi avessero potuto immaginare, nonostante a ridosso delle acque dello strettissimo bacino di Sloten non c’erano folli pronti a scommettere un solo centesimo di fiorino su quei quattro giovincelli sconosciuti provenienti dall’Adriatico nord-orientale… Invece proprio nessuno riuscì ad opporsi ai ragazzini della “Pullino”, che sul canale olandese sferzato dal vento (e tanto angusto da poter ospitare in acqua solo due barche alla volta) non trovarono ostacoli degni di questo nome sulla strada conducente all’oro olimpico ed alla gloria eterna.

Dopo aver largamente battuto per due volte, nelle eliminatorie, la Germania grande favorita della vigilia e dopo aver stabilito in semifinale, contro la Svizzera, il record olimpico (6’43”2/5), nel testa a testa finale i Nostri si trovarono di fronte…nuovamente gli elvetici! Sì, perché secondo una procedura insolita non descritta nel rapporto ufficiale, la perdente della prima semifinale (la Svizzera) ri-gareggiava contro la squadra che aveva passato il turno per sorteggio nella seconda semifinale (la Polonia); la vincente di questa “terza semifinale” accedeva alla finale per la medaglia d’oro, contro il vincitore legittimo della prima semifinale (l’Italia).

Al via gli azzurri lasciarono campo agli avversari, raggiungendoli ai 500 metri, per ritrovarsi davanti di una lunghezza già ai 750. A metà gara, con vento di traverso, il vantaggio era di una barca e mezzo. A quel punto, l’imbarcazione italiana diede fondo alle energie disponibili ed incrementò l’andatura da 38 a 42 battute: il vantaggio si fece presto incolmabile e all’arrivo si tradusse in almeno quattro lunghezze di luce, circa 15 secondi.

Un trionfo della scuola italiana, come sottolineò Camillo Baglioni, il maggior cronista italiano di canottaggio che di quel successo fu testimone: “Nessuna pesantezza nei movimenti, nessuna esagerazione nel pendolo dei corpi, che tanto dispendio di forza richiede ai vogatori, ma vivacità, scioltezza di movimenti come si addice alla nostra taglia fisica, nella media inferiore a quelle inglesi, americane e germaniche, e però una più rapida azione che supplisce alla minor potenza fisica”.

Nell’estate del 1975, nessuno ha mai saputo dire come né perché vi fosse finita, l’affusolata barca che aveva trionfato ad Amsterdam venne ritrovata, abbandonata e malconcia, in un angolo del porto di Livorno. Da lì, restaurata con amorevoli cure, venne trasportata fino al “Museo del Mare” di Trieste. Oggigiorno, l’outrigger salvato dall’oblio si culla, stanco, su quegli aurei ricordi, quasi di fronte a Isola d’Istria, che adesso si chiama Izola e non è più Italia…

Storia delle Olimpiadi, prima puntata: Dorando Pietri
Storia delle Olimpiadi, seconda puntata: Ondina Valla
Storia delle Olimpiadi, terza puntata: Gian Giorgio Trissino
Storia delle Olimpiadi, quarta puntata: Pietro Mennea
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Storia delle Olimpiadi, sesta puntata: il massacro di Monaco 1972
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Foto: FIC

giuseppe.urbano@oasport.it

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