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I colori e i segreti di Rio 2016: le Olimpiadi viste con gli occhi di un volontario
Vi proponiamo di seguito un articolo con cui Luca Dalla Costa ci racconta la sua esperienza da volontario alle Olimpiadi di Rio 2016.
La sera prima di partire, a Olimpiade già iniziata, mi sono segnato sul taccuino questa frase del debuttante italiano Elios Manzi: “L’Olimpiade è un’emozione grande, un misto di paura, ansia, felicità e spensieratezza”. Mi ci sono ritrovato in pieno, nonostante mi stessi preparando a partecipare all’evento sotto una veste completamente diversa da quella del judoka italiano, nato peraltro nell’anno in cui la mia fascinazione per i Giochi esplodeva a colpi di spada, Settebelli e bracciate di legno di Lele Merisi.
Ora che i Giochi si sono conclusi, sto cercando di decifrare l’orgia di impulsi raccolti dopo qualche settimana. Credo l’immagine che più si avvicini al mio attuale stato d’animo, sia quella di un bambino di ritorno da Disneyland, per quanto il mio massimo in termini di luna park sia stato Gardaland.
Un bambino carico a mille, incapace di decidere quale sia la giostra che gli è piaciuta di più, con gli occhi ancora sgranati e una voglia matta di raccontare a tutti e in un colpo solo quello che ha visto.
Quindi farò finta di aggrapparmi al sedile anteriore di una station wagon (nel 1996 si sarebbe trattato di una Montego Rover rossa) e urlare alle orecchie di un padre paziente una serie di immagini e concetti senza apparente nesso logico, in attesa di crollare dal sonno.
TEMPO
Ci tenevo molto a vedere le gare di scherma. Dalla finale della spada a squadre maschile di Atlanta è diventato per me lo sport olimpico per eccellenza. Non lo seguo con troppa attenzione durante gli anni non olimpici, ma per 15 giorni ogni 4 anni vedo bene di non perdermi una gara.
Riuscire finalmente a vedere una competizione dal vivo è stata un’esplosione di meraviglia. Un match dura un massimo di 9 minuti effettivi, ma la dilatazione della percezione del tempo durante lo scontro è qualcosa di inspiegabile. Fasi di studio interminabili alternate ad affondi istantanei che lasciano col fiato sospeso (in attesa di capire a chi verrà assegnato il punto, che non è mica sempre così ovvio). E non c’è verso di giocare col cronometro, lo sa bene chi sta avanti col punteggio, così come prova ad approfittarsene chi insegue.
Sarà l’arma, saranno certi rituali codificati, ma nonostante le luci fluo dell’Arena Carioca 3 ho avuto la chiara sensazione di assistere ad uno sport geloso della propria condizione artigianale e nobiliare. Artigiano e nobile perché portato avanti da poche eccellenze locali e tramandato per discendenza quasi familiare da maestro ad allievo, in una linea di continuità che va dalla Di Francisca in pedana alla Trillini nell’angolo del coach. Quasi uno spot bell’e pronto per il Made in Italy.
SPAZIO
Sento spesso ripetere che il ciclismo italiano dovrebbe ripartire dalla pista. Ora non so se la mia passione per il ciclismo persa per strada a cavallo tra anni ’90 e 2000 possa risvegliarsi grazie alle gare indoor, ma di sicuro il Velodromo di Rio mi ha lasciato le emozioni più forti di tutta l’Olimpiade, per merito di Elia Viviani. Aldilà della retorica sul riscatto del quarto posto di Londra che comunque me l’aveva reso un personaggio simpatico, e che Silvio Martinello è tuttora un bel ricordo di gioventù, mi sono avvicinato all’impianto che per primo si incontra entrando al Parco Olimpico con la diffidenza di chi dal ciclismo è stato scottato troppe volte mista alla curiosità che si può riservare ad una disciplina mai vista dal vivo. Ne sono uscito madido di sudore. L’omnium è spettacolare a dire poco e la corsa a punti finale un delirio. Condensare 40 chilometri su un circuito di 250 metri in un palazzetto dalle forme aliene é l’opera di un pazzo. Un pazzo che però ci ha visto bene, visto che solitamente gli ultimi 40 chilometri di una qualsiasi tappa di un grande giro estivo hanno rappresentato il perfetto sottofondo per gratificanti powernap pomeridiane, mentre qui sono rimasto incollato alla sedia con gli occhi sbarrati. In pratica è come guardare 16 finali di una grande classica in uno, con fughe, volate, cadute, incroci da brivido ai 50 all’ora, zero spazio tra una ruota e l’altra e 18 uomini uno contro l’altro. Se serve questo al ciclismo per ripartire, datemene ancora.
VELOCITÁ
Eravamo tutti li per Bolt, anche i colombiani e i venezuelani festanti di fronte alla pedana del salto triplo per il trionfo della Ibargüen e l’argento della Rojas. E lui non ha tradito nessuno, ci ha accolti, intrattenuti, ci ha tenuti col fiato sospeso per 85-90 metri e poi ci ha sorriso rassicurandoci sul fatto che alla fine il bene vince sempre.
Ed è per questo forse che è stato ancora più bello il fatto che un sudafricano abbia deciso di intromettersi in questo plot rassicurante facendo urlare di gioia e stupore un pubblico altrimenti già pronto all’ora X, decidendo di stampare un record del mondo tanto inaspettato quanto storico.
E l’ha fatto democraticamente, facendo godere lo stadio intero. Perché i 100 metri c’è chi li ha visti da vicino, chi ha provato a zommarli con il proprio obiettivo digitale, chi li ha guardati dai megaschermi dello stadio olimpico, chi ha provato a godersi la visione della progressione dalla tribuna opposta a quella del rettilineo e chi alla fine si è detto che forse forse, era meglio guardarseli da casa.
Ma i 400 di Van Niekerk li abbiamo visti tutti. La prima curva in piega, il rettilineo a distendersi, la seconda curva per allungare e la volata finale a lasciarsi dietro tutti: Kirani James, LaShawn Merrit, Michael Johnson.
SUONI
Sono rimasto folgorato dal tifo argentino. All’Arena Carioca 1, durante Argentina – Lituania, si sentivano solo loro, e non tanto perché di lituani ce n’erano pochi, quanto perché con i cori riuscivano a sovrastare anche le musicacce sparate a tutto volume durante i time out. Per quattro quarti, ininterrottamente. Non ho più sentito nulla di avvicinabile per tutto il resto dell’Olimpiade, pur avendo assistito a partite della Nazionale di casa o finali. Per una volta, ho intuito le ragioni di quelli del “NO al calcio moderno”. Se l’evento sportivo deve diventare un Expo come un altro, forse qualche dubbio me lo riservo.
Dall’altro lato, in mezzo al caos che un’Olimpiade riesce comunque a creare, mi sono innamorato del silenzio. Un silenzio che già conoscevo ma che avevo dimenticato. Il silenzio degli allenamenti nei giorni precedenti la gara. La tensione che si avverte ha qualcosa di materiale, va oltre il naturale nervosismo che prende fisicamente atleti e tifosi durante la competizione. E’ una sensazione che mi ha fatto ridefinire il concetto di calma olimpica. Se prima lo associavo a una sorta di pace dei sensi, ora lo definirei più come stato di concentrazione massima misto alla consapevolezza che quello che c’era da fare è stato fatto e quello che si farà fino al momento della gara non è altro che un modo per ingannare la mente. Sì, proprio come prima della discussione di laurea.
Bonus track: L’inno Brasiliano. E’ bellissimo.
SCOPERTE
Andare all’Olimpiade e non concedersi la visione di qualche sport “altro” sarebbe stato perlomeno stupido. Confesso che alla fine persino il badminton mi ha fatto gola, ma ho dovuto mio malgrado lasciarlo in standby fino a Tokyo2020 assieme alla BMX e al nuoto sincronizzato (che “altro” non è).
Sono riuscito però a colmare una lacuna, e vorrei che quanti più italiani la colmassero con me: la pallamano è una bomba.
L’ho sempre snobbata degradandola a “pallanuoto bulimica”, per via del numero esagerato di gol segnati ad ogni partita. In realtà, è una pallanuoto a velocità quadrupla, con la giusta quantità di scontri fisici e livelli di spettacolo degni del basket o delle migliori partite di hockey.
Non si può poi non amare uno sport con cambi volanti e portieri che segnano dalla propria porta, parano 3 rigori in una sola partita, aizzano il pubblico ad ogni parata e soprattutto si vestono come Gabor Kiraly.
Se solo l’Italia facesse un po’ meno di schifo, sarebbe uno slot da inserire immediatamente nel programma di zapping da divano delle prossime Olimpiadi giapponesi.
COLORE
Se dovessi sceglierne uno non avrei dubbi e prenderei il giallo. Quello delle divise dei volontari, dei bicchieri della Skol che giravano a pile tra i visitatori del Parco Olimpico e soprattutto, il giallo delle maglie del Brasile, comprensibilmente onnipresenti. Un po’ meno comprensibile invece, la presenza massiccia dei colori delle maglie delle squadre carioca, Fluminense, Flamengo e Botafogo su tutte, ma anche Vasco, Sao Paulo, Corinthians, Internacional e quella meravigliosa del Gremio, pressoché introvabile in tutta Rio. Mi dispiacerebbe non passasse la candidatura di Roma 2024, sarei perlomeno curioso di vedere con che mise ci presenteremmo in tribuna.
Ne avrei probabilmente per riempire un papiro, tra hipsterismo del volley iraniano e chart estive degli inni. Adesso però devo riposarmi e imparare a gestire i risvegli con l’ansia di essermi perso un match di pallamano o gli incubi notturni nei quali non portiamo a casa il bronzo della pallanuoto maschile. Attendendo fremente di godere del curling a Pyeongchang 2018.