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Pallavolo
Volley, Ivan Zaytsev a ruota libera: “La rottura con Berruto, io amo l’Italia. L’argento Olimpico, il rapporto con papà, l’avventura con Perugia…”
Ivan Zaytsev si è raccontato a tutto tondo in una lunga intervista pubblicata oggi su Sport Week, il settimanale della Gazzetta dello Sport. Ripercorriamo i passaggi salienti.
“La volta in cui è sclerato di più è stata la Final Six della World League 2014 a Firenze, contro il Brasile (semifinale persa prima della conquista del bronzo, ndr). Lì ho sbroccato di brutto, ma ero arrivato al limite della sopportazione di determinate dinamiche che si erano create in squadra per colpa del CT che allora era Berruto. Dal campo l’ho mandato platealmente a quel paese, volevo togliermi la maglia e lasciare la Nazionale. Eravamo ai ferri corti da tempo, siamo andati avanti a combattere ancora. Fino alla famosa cacciata da Rio”.
Ivan spiega pubblicamente i dettagli di quella “notte brava” che avrebbe poi posto fine all’era Berruto: “Ho le foto, vi faccio vedere quello che abbiamo fatto, tra l’altro dopo quattro-mesi-quattro di ritiro a Cavalese, roba da uscire pazzi… Ecco: abbiamo fatto i turisti, abbiamo visto l’Escadaria Selaron, la scalinata nel quartiere degli artisti e ci siamo bevuti due-caipirinhe-due. All’una e mezza eravamo in albergo. Il giorno dopo era libero: la sera ci hanno comunicato che l’indomani saremmo stati messi su un volo di ritorno. D’altronde eravamo reduci da un Mondiale disastroso e la squadra non girava, Berruto si sentiva in discussione perché gli bruciavano le chiappe e non gli è parso vero di poter dire: “Guardate che gruppo di coglioni sto allenando…”. E in effetti lo siamo stati, dandogli la possibilità di farlo. Poi la cosa gli si è rivoltata contro ed è finita con l’argento un anno dopo.
Per la Nazionale io farei di tutto, mentre Berruto mi faceva passare per quello egoista, che si faceva solo i cavoli suoi. Lui diceva di essere l’uomo squadra, mentre era vero proprio il contrario”.
Ritorna anche sull’argento conquistato a Rio 2016 e sullo spazio che meriterebbe il volley: “Peccato per la Finale delle Olimpiadi: una volta che arrivi lì ci fai la bocca. Un anno fa avremmo pagato tutto quello che avevamo per arrivarci, ma a Rio abbiamo fatto un percorso incredibile. Peccato. Io poi sono stato estrapolato da questo contesto di squadra come uomo immagine, ma di personaggi e belle strorie in questa Italia ce ne sono tanti.
Non avevamo mai avuto un risalto come questa volta, dobbiamo cercare di sfruttarlo. Ho già fatto presente che la Federazione non lo sta facendo, è assurdo: io per esempio dopo i Giochi non ricevuto alcuna chiamata, se non un invito giratomi dal Presidente Magri per il Forum Ambrosetti a Villa d’Este. Per esempio: c’è stata la presentazione del campionato. Fatela in piazza, in mezzo alla gente! No: al palazzo del Coni, tra di noi. Ma che senso ha?! Non credo che nessuno di noi sia stato invitato in tv o a uno shooting…”.
Ivan è tornato indietro nel tempo e ha parlato dei suoi inizi da giocatore e del suo rapporto con papà: “Ho iniziato a giocare a sei anni, mi divertiva anche se all’inizio volevo fare il portiere di hockey su ghiaccio: stavo in Russia, il movimento lì è una bomba. Però papà mi ha detto: “Senti, ma che stai a fa!”. Comunque non mi ha mai costretto”.
“Riusciva sempre a fregare il muro, aveva sta faccia da bastardo, da mo’ te la incarto io. La cosa che mi ha colpito di più era il timore che leggevo negli occhi degli avversari di giocare contro di lui. Non ricordo molto perché ha smesso che ero ancora piccolo, ma ho guardato tante videocassette. Più che altro l’ho visto giocare ancora a 53 anni in Serie C a Trevi, quando allenava lì e si erano infortunati entrambi i palleggiatori. Un giorno gli hanno fischiato una doppia, ancora un po’ tira giù l’arbitro dal seggiolone”.
“Prima della Finale delle Olimpiadi mi ha fatto i complimenti poi mi ha detto: “Bravo, hai fatto una grande cosa, però l’oro ce l’ho ancora io”. Mi ha preso parecchio per il culo, ma era fiero di me”.
Spiega anche i motivi dei due anni in Russia e del suo ritorno in Italia: “In Russia avevo perso la testardaggine e la culture del lavoro. Era come timbrare il cartellino al lavoro: arrivavi, stavi in palestra due ore inutili e tornavi a casa. Senza senso”.
“Ashling e io pensavamo che fosse il momento di cambiare aria. Da romani ce la cantiamo sempre: non funziona niente, la città è sporca, troppe tasse. Pensavamo che Mosca fosse una città della madonna e uscire dall’Europa un’idea fighissima, invece dopo due mesi volevamo già tornare a casa. Diciamo che abbiamo imparato ad apprezzare molto di più l’Italia. Mi sento più italiano di tanti che sono nati qua e infatti non vedevo l’ora di tornare”.
La dovuta chiusura su Perugia e la stagione che sta per cominciare: “Perugia è bellissima, si sta bene, sono felice di essere tornato. Sirci ha creato un ambiente favoloso, attirando tanto pubblico col suo modo di fare sanguigno, passionale, fuori dagli schemi. È un po’ il Ferrero della pallavolo, ha portato tanto entusiasmo e tanti soldi, per cui conviviamo con la pressione di vincere, ma è giusto così, è quello che vogliamo tutti.
Dobbiamo ancora trovare gli equilibri, io devo tornare a giocare in banda ma quando tutto si incastrerà bene possiamo fare grandi cose. La voglia c’è, la passione pure”.