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Volley, Mauro Berruto dopo le punzecchiature a Ivan Zaytsev: “Due anni fa le mie dimissioni. Tante medaglie con l’Italia, grandi onori”. La pagina di diario dell’ex CT

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Sono passati due anni dalle dimissioni di Mauro Berruto dal ruolo di CT della Nazionale Italiana di volley maschile. Il torinese ha lasciato la panchina azzurra dopo la celeberrima cacciata di Rio quando alla vigilia della World League mandò a casa quattro azzurri, tra cui Ivan Zaytsev, per non aver rispettato delle regole.

L’Italia veniva da uno sconfortante 13esimo posto ai Mondiali e stava attraversando un momento critico alla vigilia delle qualificazioni per le Olimpiadi. Dopo di lui arrivò Chicco Blengini e poi la cavalcata che ci portò verso l’argento a cinque cerchi.

L’astio tra Berruto (capace comunque di portarci due volte in Finale agli Europei dopo 5 anni senza medaglie internazionali) e lo Zar non si è mai assopito. Anzi. Il recente caso scarpe ha dato modo al coach di pungere il giocatore, puntando il dito in maniera soft con il suo stile filosofico.

Oggi, 29 luglio, Mauro Berruto è tornato su quelle dimissioni e ha scritto un lungo post sul suo blog personale. Di seguito i post sul caso Zaysev e l’articolo pubblicato oggi.




 

 

 

Sono passati due anni. Due anni esatti dal 29 luglio 2015, il giorno delle mie dimissioni dall’incarico più meraviglioso che abbia mai avuto l’onore di ricevere.

Meraviglioso sì, per il suo rappresentare il valore più alto, più istituzionale, più vicino a un senso di appartenenza totalizzante di tutto ciò che io abbia mai fatto prima e dopo. Io, non un ex campione diventato allenatore, ma un ragazzo partito da un oratorio con una laurea in filosofia. Io, un passo alla volta, attraverso quattro campionati di diverse categorie, otto città, tre nazioni. Io, dopo un giro lungo, arrivato alla cosa più grande immaginabile: allenare la Squadra Nazionale del proprio Paese. Ho avuto l’onore, in quel giro lungo, di allenare campioni olimpici ed esordienti, greci e finlandesi, uomini e ragazzini. Per sei mesi, quando ero a Montichiari, ho persino allenato una squadra di detenuti di un ospedale psichiatrico giudiziario. Non è retorica dire che da tutti ho imparato qualcosa. Qualcosa che mi ha reso felice o che mi ha fatto male, qualcosa che non capivo, ma che poi mi sarebbe servito, qualcosa che ho vissuto come pura bellezza oppure qualcosa che è stato brutto, doloroso, senza significato. Di sicuro sono certo di aver messo in campo, in quei cinque incredibili anni con addosso la maglia azzurra, tutto quello che, in quel giro lungo, ho imparato. Allenare la nostra Squadra Nazionale non è stato semplicemente “allenare”. Quelle 134 partite, quelle sette medaglie tornate in Italia dopo un periodo di cinque anni dove le medaglie vinte erano state zero, è stato spingere me stesso e le persone che con me hanno condiviso quel cammino, verso la cima di una montagna a cui ho dedicato venticinque anni della mia vita. D’altronde il gesto dell’allenare altro non è che “allenare al desiderio di…” e, dunque, non torno e non voglio più tornare sul motivo per cui decisi di lasciare. C’è una lettera, che scrissi la notte di due anni fa, a cui avevo dato un titolo: “Grazie, mi fermo qui”. La rileggo oggi, con un sentimento che è difficile da spiegare, e la trovo ancora così dolorosamente attuale. Mi è stato chiesto centinaia di volte: “Lo rifaresti?”. Non mi interessa giocare a fare l’eroe: è stato così tanto il dolore che quella decisione mi ha procurato che non so rispondere. Non so se lo rifarei, so che era la cosa giusta da fare. La desolazione sta nel fatto che, se certamente quella era la cosa giusta da fare, forse non è servita a niente.

Non so se troverò un’altra montagna a cui dedicare 25 anni di vita. Non so se troverò un’altra montagna capace di riaccendere quel fuoco (che “sacro” davvero deve essere) a cui ho dato tutto, ma proprio tutto, il combustile che avevo e che si è spento due anni fa, proprio un 29 di luglio. Non lo escludo, non l’ho mai fatto, ma fino ad oggi non c’è stato nessun progetto capace, quel fuoco, di riaccenderlo. Non mi sono mancati i momenti di tentazione di fronte a qualche scintilla rimasta accesa lì sotto la cenere. Club importanti (in Asia e in Europa, nessun club italiano sgombro io il campo da ogni dubbio…), e alcune squadre nazionali non hanno fatto ritrovare in me la chiave del serbatoio di quel carburante che, se si è onesti, è fondamentale per poter fare la professione di allenatore regalandole ciò che merita, ovvero il 100% di se stessi. Ho fatto e sto facendo altro, con grande orgoglio. Mi sono ritrovato, una manciata di settimane dopo quel 29 luglio 2015, a dirigere una Scuola che ha a che fare, eccome, con il talento. Un posto magico, un’esperienza intellettualmente enorme che prosegue, tutt’oggi. Credo tuttavia di avere ancora delle cose da dare e da dire al mondo dello sport del nostro Paese. Chissà forse non al mondo della pallavolo al quale ho dato ogni stilla di energia e che sempre e comunque ringrazierò perché mi ha letteralmente costruito, un pezzo dopo l’altro, nell’essere ciò che sono. Ho lottato, prima, durante e dopo per fare un lavoro così importante e così simbolico, come quello di Commissario Tecnico della nostra Squadra Nazionale, per trasmettere una certa visione di sport. Un certo modo di fare sport. La mia visione, la mia idea. Certo, sono consapevole che possa non essere l’unica, ma era la mia. Rimane la mia. Rimarrà la mia. Quando si è chiamati a qualcosa di così alto è bene farlo seguendo la propria idea. A ogni costo.

Forse ho pagato un prezzo, perché quell’idea, per me, era importante come la più importante delle medaglie. Continuo a credere che, quell’idea, le medaglie le faccia vincere e lo dico con la certezza di chi cinque anni fa era con una bandiera sulle spalle davanti a un podio olimpico dove c’erano 12 atleti e 13 maglie. I cinque minuti più incredibili della mia vita.

Non ho intenzione di rinunciare a quell’idea, perché essere campioni, nel senso che a me affascina, comporta responsabilità, diritti e doveri. Lo sport, epica dei nostri tempi, è un modo per cambiare il mondo (e non lo dico io, lo sosteneva un certo Nelson Mandela) e sarebbe bene che tutti noi, che di sport abbiamo vissuto o viviamo, ce lo ricordassimo tutte le mattine, al risveglio.

Da quella montagna alla quale sono stato abbracciato per cinque anni, sono sceso. Oggi sono al campo base, e la guardo con la nostalgia che si prova dopo aver fatto un viaggio straordinario che ti ha portato a vedere paesaggi da perdere il fiato, là dove si può arrivare solo ed esclusivamente a piedi. Con i tuoi piedi, con le tue forze. Sono salito su cime inaspettate, mai solo, sempre grazie a cordate diverse. Sono arrivato a qualche centinaia di metri da quella cima che più di ogni altra, per 25 anni, ho sognato e desiderato. Mi sono fermato lì, dove l’aria rarefatta ti regala la sensazione di averla davvero a portata di mano.

A cosa è servito?

C’è un libro di memorie di un francese che si chiamava Lionel Terray e che definisce gli alpinisti: “I conquistatori dell’inutile”. Morì, Lionel, 44enne, in montagna. Probabilmente felice, alla ricerca di un altro pezzo di bellezza apparentemente inutile che, appunto, è inutile spiegare.

Ho letto tanti giudizi nel corso dei miei cinque anni alla guida degli Azzurri. Giudizi belli, emozionanti, obiettivi, ragionevoli, brutti, offensivi, pieni di pregiudizi, irragionevoli. Probabilmente capiterà così anche qui sotto, quando pubblicherò queste riflessioni. Sono stato, sono e sarò felice di trovare ancora tante persone che mi dimostrano stima e che ringrazierò per sempre. Ci saranno persone che anche in questo caso troveranno il modo di sfogare proprie frustrazioni. Fate pure. Questi due anni sono serviti ad anestetizzare anche quel nervo. Oggi leggo e non riesco che a sorridere, con amarezza, di fronte a chi usa la tastiera del proprio computer come una sputacchiera o un vomitatoio di livore. D’altronde questa, non solo nello sport, è l’età del risentimento. Non sarà il più bel mondo dove vivere? Pazienza, è questo. Lo abbiamo costruito noi così. Punto.

Il 29 luglio è nato Benito Mussolini, è morto Van Gogh, è stato il primo giorno della 1° Guerra Mondiale e quest’anno, la solita profezia, lo ha indicato come la data di un’ennesima fine del mondo. No, non finirà oggi il mondo. Perché il mondo ha in sé la malattia e la cura e va avanti, dritto per la sua strada, nonostante i nostri tentativi di peggiorarlo. Tuttavia, mi si permetta la battuta, se questo 29 luglio lo si potesse togliere dal calendario, ne sarei felice.

Ho regalato tante volte ai miei atleti una poesia di Kostantinos Kavafis. Si chiama “Itaca” e racconta del viaggio di un Ulisse giovane ed eroico verso la propria isola, rammentando di quanto occorra essere felici che quel viaggio sia lungo, pieno di porti da visitare, di ricchezza, di persone, di luoghi, di momenti che si incontreranno lungo la strada.

Oggi regalo a me stesso e a chi avrà avuto voglia di leggere fino qui, i versi finale di un’altra narrazione di Ulisse, quello di Alfred Tennyson, poeta inglese, che trovai scritta, a caratteri cubitali, dentro al villaggio olimpico di Londra. E’ un Ulisse diverso quello di Tennyson, vecchio, tornato a Itaca da anni, non più l’eroe di un tempo, non più con la stessa forza a disposizione. Ma è un Ulisse che sente di dover ripartire di nuovo e allora, con lo stesso carisma, raccogli i suoi uomini e dice loro:

 

“WE ARE NOT THAT STENTGTH WHICH IN OLD DAYS

MOVED EARTH AND HEAVEN, THAT WHICH WE ARE, WE ARE.

ONE EQUAL TEMPER OF HEROIC HEARTS,

MADE WEAK BY TIME AND FATE, BUT STRONG IN WILL

TO STRIVE, TO SEEK, TO FIND, AND NOT TO YIELD.”

 

 

“NOI NON SIAMO OGGI QUELLA FORZA CHE IN GIORNI ANTICHI MOSSE TERRA E CIELI, CIO’ CHE SIAMO, SIAMO.

UN’ EGUALE INDOLE DI EROICI CUORI, IDEBOLITI DAL TEMPO E DAL FATO, MA FORTI NELLA VOLONTA’

DI COMBATTERE, CERCARE, TROVARE, E DI NON CEDERE.”

 

Quell’Ulisse parla a tutti noi, che abbiamo sempre un luogo a cui desideriamo ritornare e, ogni volta che ci arriviamo, scopriamo che ce n’è sempre un altro di cui già sentiamo la mancanz

1 Commento

  1. Nany74

    29 Luglio 2017 at 21:24

    Semplicemente Berruto! E’ per questo che ho sempre grande rispetto per Mauro (e per lo Zar, sia chiaro!!) e non mi sono mai espresso su quanto successo! Mi fa piacere sapere che ha trovato un’altra strada da seguire, anche se, per lui e per la pallavolo tutta, gli auguro di tornare con la tuta addosso il prima possibile! Abbiamo sempre bisogno di persone capaci e che credono nei valori, primo fra tutti, la disciplina…….generazione dei fenomeni docet. Grande Mauro!

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