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Atletica, Mondiali 2017: l’ennesimo disastro azzurro. La programmazione e la mentalità perdente, ma si vuole davvero cambiare?

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Ha quasi dello stucchevole ma in ogni edizione iridata l’atletica italiana riesce nell’impresa di far peggio e non è certo esercizio giornalistico volto a vendere iperboli ma è la pura verità. I peggiori Mondiali di sempre sotto il profilo delle prestazioni in pista, soprattutto, e della mentalità. Non basta il bronzo di Antonella Palmisano nella 20km di marcia o la buona prova di qualche atleta al personale a cambiare le carte in tavola. 

La disciplina regina per eccellenza in Italia non esiste e questo lo diciamo ogni biennio, a cadenza regolare, da diverso tempo. Di discorsi se ne sono fatti tanti tra tecnici chiusi nelle loro idee ed una Federazione, quasi assuefatta alla mediocrità da nascondere lo sfacelo dietro un metallo. La Palmisano è stata bravissima, per carità, ma come non era giusto farle recitare il ruolo di salvatrice della patria prima della gara adesso non può essere la ciambella di salvataggio per chi ha certi ruoli.

Crisi nera dunque e le cause, come detto, sono sempre le stesse: mentalità e programmazione. Al contrario del nuoto, dove, conti alla mano i risultati sono stati lusinghieri e si vedono segnali di discontinuità rispetto al passato, nell’atletica questo “cancro” perdente si pensa di poterlo curare con un’aspirina. Servono riforme incisive per far sì che la pratica venga incentivata e soprattutto la gestione fisica e psicologica sia all’altezza della situazione. Tantissimi nostri rappresentanti, grandi prospetti a livello juniores, hanno poi perso la bussola o per continui infortuni fisici vedi Andrew Howe e Daniele Greco, tra i primi che vengono in mente, o per approcci alla gara problematici come Alessia Trost.

Difficoltà dettate da una scarsa coesione all’interno del movimento dove, oggettivamente, non sembra vi sia grande unità di intenti ed in cui il linking tra i vari centri di allenamento è assente. Vi è quasi un contesto dilettantistico rispetto agli altri Paesi e questo porta ad un livello mediocre, di base, nelle specialità. Indubbiamente anche le strutture sono poco adeguate ma questo sembra essere un aspetto secondario. Quel che colpisce è la concezione della partecipazione al Mondiale non come una tappa di transito ma di arrivo in cui molti si rivedono. Una non competitività di fondo inaccettabile, ancora una volta esibita più e più volte nel darsi agonistico londinese.

Problematiche che in altri Paesi sono state risolte con un processo di crescita finalizzato alla vittoria: se un atleta ha tempi per poter competere vale la pena investirci altrimenti è out. Un modello di questo genere è stato adottato in Gran Bretagna e, per certi versi, può sembrare settario ma forse, nel nostro caso, ve ne è uno eccessivamente permissivo in cui molti atleti facenti parte dei corpi militari ricevono contribuiti senza però essere competitivi. E ciò diventa quasi imbarazzante nell’iper professionismo dello sport moderno.

Molti rimpiangono i tempi di Francesco Panetta, Salvatore Antibo, Alessandro Lambruschini ecc…ma quella era un’altra atletica dove il talento ed il sacrificio di qualcuno poteva bastare. Ora non è più così. Serve un contesto di qualità per far sì che la capacità individuale venga gestita e trasformata in risultati. Noi siamo rimasti ai miti del passato ma non ci siamo evoluti al contrario di altri che, forse, con più cinismo ma maggior concretezza hanno saputo voltare pagina comprendendo che per vincere serve pragmatismo e non romanticismo.

giandomenico.tiseo@oasport.it

Twitter: @Giandomatrix

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Foto: Fidal

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