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Vanessa Ferrari, 11 anni da Campionessa del Mondo. L’anniversario col gesso, il brivido della leggenda e il sogno di Aarhus verso il futuro

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Questo 19 ottobre non è come tutti gli altri. Vanessa Ferrari festeggia l’undicesimo anniversario del suo trionfo iridato con una gamba ingessata, con il tendine d’Achille sinistro appena operato dopo l’infortunio patito a Montreal quando inseguiva l’ennesima medaglia della sua monumentale carriera. Undici anni fa l’Italia viveva la pagina più bella della sua storia per quanto riguarda la ginnastica artistica femminile: uno scricciolo di 143cm per 36kg si laureava Campionessa del Mondo nel concorso generale scrivendo una pagina leggendaria, indelebile da qui all’eternità, un momento più unico che raro, il brivido della prima volta che non si scorda mai, l’impresa della pioniera che apre una strada verso l’ignoto, verso l’impossibile. Prima di allora non avevamo mai toccato palla con le ragazze.

Semplicemente il numero indescrivibile di chi ci ha sempre creduto, di chi sapeva di poter coronare i propri sogni, di chi era consapevole di poter essere Reginetta per una notte e per una vita, un cucciolo di 15 anni in mezzo a dei colossi provenienti da tutto il Pianeta, un’italiana che si faceva largo tra americane, russe, rumene, cinesi, dopo sacrifici immani che solo lei e chi le è stato vicino in quelle stagioni può davvero descrivere al meglio. Il tricolore sale sul pennone più alto, tra le lacrime di chi forse solo dopo una vita ha davvero capito quanto ha realizzato il 19 ottobre 2006 ad Aarhus. Perché lì, in quel preciso istante, in quel tripudio danese, in quell’apoteosi fantascientifica, la nostra Polvere di Magnesio è cambiata ed è inutile negarlo. In fondo quello che abbiamo visto negli anni successivi (tre qualificazioni olimpiche consecutive con la squadre, qualificazioni a finali internazionali e medaglie sempre con lei) sono frutto di quella scintilla, alimentata indubbiamente dal lavoro di tutto il circuito azzurro.

Questa giornata di ricordo, passata con le stampelle e con il “gesso tatuato”, farà sicuramente sorridere la nostra capitana che fa il conto alla rovescia per tornare quantomeno a camminare e per godersi la tanto desiderata vacanza a Cuba. E siamo pronti a scommetterci: non è finita qui, non è finita con quella diagonale ai Mondiali 2017, ci sono ancora diverse imprese da realizzare, si può ancora sognare qualcosa di grande. Il mito dell’Araba Fenice che è sempre risorta in oltre dieci anni di carriera ha ancora da recitare un ruolo nella ginnastica artistica. Comunque vada la aspetteremo, in qualunque veste. Ma intanto riviviamo le memorabili emozioni di quella serata.

 

Perché ogni 19 ottobre il ricordo va sempre a un momento che ha rivoluzionato la storia dell’artistica italiana. E sempre così sarà“. Sono passati 11 (undici!) anni. Ma il ricordo di quelle emozioni è sempre indelebile.

Giovedì 19 ottobre 2006. Aarhus, Danimarca. XXXIX edizione del Campionato del Mondo. Finale del concorso generale individuale femminile.

La ginnastica artistica, nella notte più importante dell’anno, sta cercando la propria Reginetta, colei che reggerà lo scettro della disciplina per i prossimi dodici mesi. Per la prima volta nella sua centenaria storia, l’Italia ha tra le mani la reale e concreta possibilità di realizzare un sogno: vincere quell’iride che, al femminile, non ha mai varcato i nostri confini.

A difendere i nostri colori c’è una ragazzina che deve ancora spegnere le sue prime sedici candeline. Di cognome fa Ferrari. Non è una Rossa che sfreccia in pista, ma è un angelo che vola in un’Arena senza avere le ali. Uno scricciolo di 143cm per 36 kg che cerca l’apice di una carriera appena sbocciata.

Avvolta nel suo body tempestato di diamanti, Vanessa sente l’importanza del momento sulle sue piccole e forti spalle. Tesa come le corde di un violino, sa che su di lei gravano l’attesa e le aspettative di un Paese che l’artistica la mastica poco o nulla.

A cercare l’impresa tra l’élite del Pianeta, tra le maestre rumene, tra l’Armata russa, tra le estrose statunitensi private di Chellsie Memmel (campionessa uscente, prima in qualifica ma infortunatasi alla spalla durante la finale a squadre), tra gli attacchi provenienti dalla Cina diventata protagonista della rassegna, si è infilata un’azzurra dal cuore grande così. Semplicemente Vanessa Ferrari. Da Brescia. Con una determinazione spaziale e fuori dal comune: grintosa, pronta a tutto, cattiva. Sicura di quanto vale. Certa di poter osare.

Il treno diretto per la gloria parte all’ora di cena. L’antipasto è al volteggio, certamente non il suo punto di forza. Arriverà il suo doppio avvitamento. Lo schermo brilla con cinque cifre importanti: 14.800. Il primo mattoncino è messo. Per il momento è davanti a Jana Bieger, chiamata a difendere l’onore a stelle strisce (14.725). La prima rotazione si conclude con un settimo posto parziale. Un occhio va alla trave dell’australiana Dykes, al comando con 15.625, e soprattutto alle asimmetriche del duo asiatico composto da Pang (15.425) e Zhou (15.150).

 

Seconda rotazione. SuperVany ha apparecchiato la tavola ed è pronta per mangiarsi le commensali. Ci sono le parallele asimmetriche ad aspettarla. Forte come un leone, agile come un gatto. Qui non esistono coperte di Linus, qui non ci sono paure, qui le mani non tremano. È uno dei punti di forza del fenomeno. Parte decisa. Saranno quaranta secondi da antologia. Un esercizio da favola, capace di tenere tutti col fiato sospeso. Un’esibizione da fregarsi le mani. Perfetta. Pulita. Precisa. Un cioccolatino da scartare e gustare piano piano. Dolce dolce come il punteggio che i giudici le regalano: un pazzesco 15.825. Sono le altre a dover inseguire. Lo fanno. Male. L’attrezzo sembra diventato di burro: la reginetta della specialità Beth Tweddle cade inaspettatamente, imitata poi dalla canadese Hopfer. Solo la Bieger non crolla e prova a rimanere incollata al peperino in fuga.

La Ferrari è in testa a metà gara. Il suo complessivo 30.625 è una sicurezza, davanti al 30.225 della Pang, superiore al 30.175 della Dykes, con un bel margine di vantaggio sulla Bieger ferma a 30.075.

 

 

Trave. L’attrezzo femminile per eccellenza. I 10cm di legno che incutono timore a molte, che sfiancano l’equilibrio, sfuggevoli sotto quei piccoli piedini capaci di destreggiarsi in incredibili evoluzioni.

Arrivo dal salto giro avvitato: cerca di restare su, barcolla, ma non riesce nel miracolo. Cade. Tum. Un boato frange sulle pareti dell’Nrgi Arena. I sogni di un’adolescente sembrano spegnersi definitivamente lì. Si stanno sciogliendo come neve al sole in un’uggiosa serata di autunno.

Ma la sorte e gli almanacchi non hanno fatto i conti con gli occhi della tigre della Cannibale di Orzinuovi. Le sue pupille brillano di cattiveria. Rialza la testa. Su una gamba, poi l’altra e via a riassaporare il legno. È una parte finale di esercizio da applausi, terminata senza sbavature, con un’uscita perfetta. Ma si sa la giuria può essere inclemente e potrebbe spedirla giù negli abissi. No, sarebbe un’ingiustizia e arriva un buon 14.900. La statunitense le recupera quattro decimi tondi tondi, la Pang la scalza dalla vetta e l’azzurra scivola in seconda posizione. Serve il miracolo.

 

Terminato l’esercizio è visibilmente scossa, delusa e spaventata. Ma tra lei e la gloria c’è solo il corpo libero. Il suo amato corpo libero. Le basta farlo al suo livello per salire sul gradino più alto del podio.

Sì, la cinesina di fronte all’ostacolo insormontabile del volteggio è goffamente caduta addirittura fuori dal podio-gara. La Bieger si è esibita sul quadrato: è pulita, ma è senz’anima.

Vanessa alza le braccia, saluta la giuria e sorride. Dietro quei trentadue denti ci stanno anni di sacrifici messi in gioco in un minuto e mezzo. E prima di partire le passano davanti i flash dei pomeriggi in palestra. Delle fatiche di calpestare una pedana 10×10 quando quella regolamentare è di 12×12. Delle botte prese andando a sbattere contro il muro, visto che nella sua palestra non esiste la striscia con i due metri di fuga. Del soffitto troppo basso. Del tappetino di 17 metri per simulare la diagonale. Fantasie e situazioni al limite dell’umano. Il giusto premio che chiederà al termine della gara sarà una palestra nuova e più adatta al suo livello.

 

Ma ora sgombera la mente. Via. Il proverbio latino diceva “in nomen omen”. Il destino della Ferrari è segnato quando inizia a volare sulle note del Nessun dorma, la celebre aria tratta dalla Turandot di Puccini. L’adrenalina tiene svegli tutti. Se poi fai uno Tsukahara avvitato perfetto proprio mentre risuona il celeberrimo acuto Vinceeeeerò allora non c’è più niente da fare. Non la ferma più nessuno. Un mix infallibile che la porta a concludere col cuore che pulsa a mille. Di gioia, di felicità. Dentro di sé sa di essersi messa al collo l’alloro più prestigioso. Il punteggio tarda ad arrivare. Ma è solo la suspense del grande evento.

È il profumo che si respira quando si capisce che è appena Nata una Stella. È 15.500. È un atterraggio morbidissimo a 61.025. È magicamente ORO! È semplicemente CAMPIONESSA DEL MONDO! Le lacrime oggi sono per la Bieger (seconda, 60.750 ) e la rumena Sandra Izbasa (terza, 60.250). Per loro non c’è niente da fare. Questa sera, quella sera, LA sera c’è l’Inno di Mameli a risuonare in terra danese.

È l’apoteosi. Solo l’Italia ha una Ferrari tutta d’oro. Che fa emozionare e battere i cuori. È il mito di chi è invisibile ma sa stupire. È il talento che sprizza da tutti i pori. È l’esempio di chi ha coraggio e di chi vuole arrivare. È la dimostrazione che la Mission Impossible si può realizzare. È la riprova che i sogni non vanno lasciati chiusi in un cassetto, ma vanno lasciati evaporare, vanno coltivati, con sudore, con sofferenza, con amore.





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