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Basket, Champions League 2018-2019: la Virtus Bologna e quell’Europa tornata che fu brivido di tempi d’oro
Mercoledì 10 ottobre 2018: Bologna s’è riaffacciata all’Europa del basket, sulla sponda Virtus. Dopo nove anni travagliati, tanti quinti posti in regular season di Serie A trasformati in quarti dei playoff, due anni anonimi, la retrocessione diretta in A2 del 2015-16, la risalita della stagione successiva e il consolidamento del nuovo corso, le V nere hanno ripreso, contro il Neptunas Klaipeda, una marcia che s’era interrotta con un trofeo.
Paradossalmente, il livello con cui si considera la Champions League oggi è lo stesso dell’Eurochallenge del 2009: terza coppa europea. Solo che la Champions della FIBA è molto più vicina all’EuroCup di quanto non lo fosse allora l’Eurochallenge, che pure condivide con l’attuale coppa il trofeo. Quel trofeo ha una storia lunghissima: prima del passaggio dell’Eurolega sotto l’egida ULEB, è stato quello il più ambito in assoluto, perché ha rappresentato, fin da quando si chiamava Coppa dei Campioni, il massimo possibile in Europa, il titolo di campione continentale per club. O, come amava definirla Aldo Giordani, “la Coppa Europa tra le squadre campioni”, visto che ai tempi avevano accesso i vincitori dell’anno precedente e i vari campioni nazionali.
Quel trofeo (con modalità d’ingresso ovviamente cambiate) le V nere l’hanno alzato una volta, nel 1998: era l’anno di Sasha Danilovic, dell’AEK Atene in finale, dell’esodo di bolognesi a Barcellona, della tripla di Zoran Savic che spacca la partita, di Abbio, Binelli, Rigaudeau e Sconochini, di un giovane in panchina di nome Chicco Ravaglia (pace all’anima sua).
Ci si sorprenderà leggendo “una volta”. I titoli di Eurolega di Bologna, in realtà, sono due: ma proprio nel 2000-2001 è cambiato tutto. La FIBA non aveva registrato il marchio Euroleague, la ULEB, già attiva dal 1991, ci si è buttata subito organizzando la manifestazione con quel nome. La Federazione internazionale, allora, ha reagito mettendo in piedi la Suproleague: si è creato così l’effetto paradossale di avere due campioni d’Europa che si sono potuti legittimamente chiamare tali. Uno, il Maccabi Tel Aviv, ha alzato al cielo la coppa originale, l’altra, la Virtus Bologna, ha sollevato un trofeo nuovo, ma non meno luccicante: ancora sotto la guida di Ettore Messina c’erano Manu Ginobili, Abbio, Bonora, Frosini e il miglior Rashard Griffith visto in Italia. Una squadra, insomma, forte a sufficienza per dimostrare al Tau Vitoria, in cinque partite, che no, di spazio non ce n’era per portarsi via l’Eurolega.
Poi è arrivata l’Eurochallenge, che è rimasta per un po’ di tempo l’ultima coppa europea vinta da una formazione italiana: le V nere erano le favorite, hanno organizzato la Final Four in casa e, forti di un roster formato dall’ex microfunambolo NBA Earl Boykins, Keith Langford, Alex Righetti Sharrod Ford e da un giovane Petteri Koponen, si sono prese il trofeo in finale contro lo Cholet. Oggi è cambiato tutto: la Virtus è tornata a giocare al PalaDozza invece che a Casalecchio di Reno, ha nomi tutti diversi, è passata tra momenti molto difficili, ma è tornata nel continente. E quando Aradori, Cournooh, Punter, Kravic si sono presi la squadra sulle spalle contro il Neptunas, un po’ dell’eco antico forse s’è sentito.
La prossima sfida degli uomini di Pino Sacripanti sarà ancora in casa, domani, contro Ostenda: casualmente o no, una delle prime avversarie dell’Eurochallenge 2008-09. Oggi la squadra belga ha diversi giocatori all’inizio o nella fase centrale della carriera, guidati dall’esperto play serbo Dusan Djordjevic (nulla a che vedere con Sasha), ma all’esordio ha steccato contro il Promitheas di Patrasso. Con la mentalità corretta, non dovrebbe essere complicato tener fede allo striscione apparso al PalaDozza mercoledì scorso dal lato della curva virtussina: “In Italia e in Europa riportiamo in alto il nome di Bologna“.
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federico.rossini@oasport.it
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Credit: Ciamillo