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Coppa Davis, ha ancora senso chiamarla così? Una competizione ultracentenaria snaturata. Format innovativo che cancella la storia
Nella scorsa estate, a Orlando, in tanti hanno sperato che la riforma della nuova Coppa Davis, tanto voluta dal gruppo Kosmos e dall’ITF con in testa il suo presidente Dave Haggerty, non avvenisse. Invece, complici anche alcuni provvedimenti che tanto hanno fatto discutere (non ultima una norma ad hoc che ha salvato il diritto di voto dell’ex vicepresidente Bernard Giudicelli, utile perché portava i pesanti 12 voti della Francia), 118 anni di storia sono stati messi a soqquadro.
Se i delegati di tante nazioni hanno espresso il loro parere favorevole, non hanno fatto così tanti appassionati, che si son visti sottrarre con un unico colpo di spugna un gran numero di cose tutte insieme. I match al quinto set ed i weekend di tre giorni sono solo due degli aspetti contestati da molte persone, delle quali si son fatti portavoce i tifosi francesi durante semifinale e finale dell’ultima edizione. Lo Stade Pierre Mauroy di Lilla si è così trasformato in un autentico ritrovo di contestatori dell’ITF, che in varie occasioni hanno chiarito il loro parere ai vertici della Federazione internazionale, e ancor più a quel Giudicelli evitato quasi come la peste anche dai giocatori transalpini stessi, a larga maggioranza contrari alla riforma.
Il principale pregio della Coppa era, però, un altro: arrivare laddove il tennis in genere non arriva, anche a costo di sperimentare soluzioni molto curiose e scatenare l’inventiva dei vari organizzatori: alcuni anni fa, per esempio, l’Austria ospitò un match all’interno di un hangar dell’aeroporto di Vienna. Qualcosa di simile fece la Germania nel 1993, ma nella finale contro la Svezia: il campo in terra fu allestito all’interno di un padiglione della Fiera di Dusseldorf. Sono solo due tra le tantissime cose viste in Coppa Davis (ma anche in Fed Cup ci sono esempi non da poco). Merita una menzione anche la spiaggia di Maceiò, in Brasile, sulla quale l’Italia perse un quarto di finale nel 1992, ma ci sono state anche le vicinanze del mare a Santander, nel 2000, quando la Spagna pensò di tirar su otto tribune smontabili per un totale di sedicimila posti. L’occasione era la semifinale con gli Stati Uniti, un ricordo che a John McEnroe, allora capitano di Davis americano e uomo simbolo della manifestazione, non piace per niente. L’Olanda, invece, riuscì a inventarsi un campo sulla banchina del porto di Rotterdam.
Tutte queste soluzioni, che ogni volta hanno offerto uno spettacolo unico di pubblico, saranno molto ridotte dal nuovo format, che prevede un solo turno preliminare in due giorni e le cosiddette Davis Cup Finals in singola sede. Là dove, per esempio, poteva esserci un quarto di finale in un Paese come l’Argentina, da sempre forte di un pubblico caldissimo, adesso ci saranno partite di quarti di finale in un campo da circa 3500 posti, decisamente meno di qualsiasi quarto mai disputato da svariati anni a questa parte. E la cosa più triste è che quei 3500 posti potrebbero facilmente non essere pieni, visto che non appare tanto scontato che le persone si mettano in viaggio a novembre per una settimana o giù di lì ballando sulle incertezze. L’appellativo di “Kosmos Cup” rifilato da più d’uno alla nuova Davis si giustifica anche così.
Un piccolo spiraglio, per chi ha nostalgia del vecchio format, c’è: se le prime edizioni dovessero naufragare in termini di interesse generale o di pubblico, ci potrebbe essere una marcia indietro. Forse, però, questo potrebbe non avvenire prima che, sull’altare della pioggia di dollari arrivata alle Federazioni per questa riforma, le citate Davis Cup Finals cambino sede, ed è un segreto di Pulcinella che sia Indian Wells, sulla base delle munifiche sicurezze offerte da Larry Ellison.
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federico.rossini@oasport.it
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Foto: Leonard Zhukovsky / Shutterstock