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Ciclismo
Ciclismo, Alan Marangoni: “La mia nuova vita da presentatore. In Italia i gregari stanno sparendo”
ESCLUSIVA OA SPORT – Il gregario, quella figura così affascinante, dal sapore antico, dell’uomo pronto a sacrificarsi per gli altri. Un ruolo importante, fondamentale, ma spesso sottovalutato nel ciclismo che conta. L’Italia delle due ruote, in questi anni, ha conosciuto un ragazzo che ha rappresentato alla perfezione la veste del gregario. Che come nelle storie più belle, dopo tanta fatica, e nell’ultimo atto tra i professionisti, ha realizzato il sogno di alzare, per la prima volta, le braccia al cielo; e chiudere così, con serenità, una carriera passata al servizio di tanti campioni. Stiamo parlando di Alan Marangoni, che dopo dieci anni di corse ha colto l’opportunità di vivere il suo amato ciclismo sotto un altro punto di vista, reinventandosi da poco presentatore di GCN Italia. A cuore aperto, il romagnolo ci racconta la sua nuova vita, gli ultimi istanti della sua carriera, e la trasformazione che questo sport ha subito negli anni.
Com’è cambiata la tua vita? Raccontaci un po’ questa nuova quotidianità.
“Sotto certi aspetti è molto simile a quello che facevo prima. Logicamente son passato dal fare venti ore di bici a settimana, a circa sei, se va bene. Sono in giro molto spesso, alcune volte vado negli studi di GCN vicino a Bristol, e sono stato anche al ritiro della Bora a Sierra Nevada. Non è una vita statica, ma devo ancora imparare a gestire le giornate, ottimizzare i tempi, organizzare i vari impegni di lavoro”.
Com’è nata l’avventura con GCN Italia?
“Sono stato contattato da Manolo Bertocchi, colui che ha dato il via al progetto Global Cycling Network sei anni fa; lui lavorava già per Cyclingnews e da qui è nato GCN. Si occupava del reclutamento per lo staff del canale italiano, per cui ha spinto molto, data la grande cultura ciclistica del nostro paese; e quindi era giusto provarci. Ci siamo sentiti a fine settembre, dopo qualche accenno da parte del mio ex general manager della Nippo, Francesco Pelosi, con cui era in contatto. Bertocchi cercava un conduttore, così Pelosi gli ha fatto il mio nome, perché secondo lui potevo esser portato per questo ruolo. A metà ottobre, prime delle ultime corse in Asia, ho fatto il provino, che è andato bene. Alla fine, ho disputato l’ultima gara l’11 novembre e il 19 ero già in Inghilterra a lavorare. Mi sono buttato a testa bassa in questa avventura, e sono contento di aver fatto questa scelta. È un lavoro per cui mi sento portato. Devo ancora migliorarmi, ma sono entusiasta, anche perché sono ancora in contatto con i miei colleghi, col mio mondo, e questo è importantissimo. Ad oggi posso dire che è stato il compromesso perfetto, poi si vedrà. Alla fine, questa è una scommessa sotto tanti punti di vista. Però sono sereno, perché è un modo per costruire qualcosa anche per il futuro”.
Quali sono state le sensazioni che hai provato nel momento in cui hai deciso di chiudere la tua carriera?
“Il 2018 è stato l’anno peggiore di tutti, con diversi problemi fisici sin dall’inizio. Quando non hai alternative valide, anche se stai male, vai avanti con quello che ti da più sicurezza. Io avrei anche continuato, poi però è arrivata questa proposta, dopo un mese infernale in Cina, e mi sono convinto di smettere. Ho fatto questo annuncio della fine della mia carriera mentre tornavo dall’Inghilterra, ma senza la garanzia di poter lavorare in GCN. Poi alla fine mi son detto: “se sono così incerto, se alla prima occasione che arriva, mi vien voglia di smettere sul serio, vuol dire che devo chiudere qui”. Son partito per la mia ultima trasferta consapevole del fatto che sarebbe stata l’ultima della mia carriera”.
E alla fine…
“Alla fine, volevo lasciare il segno. Per un motivo o per l’altro non ero mai riuscito a vincere, e dovevo pur portare a casa qualcosa. Poi l’ultimo tentativo è stato quello buono. Incredibile! Insomma, è stata la stagione più brutta della mia vita, e alle ultime due gare ho fatto un quarto posto e ho vinto a Okinawa. In tanti mi hanno detto di ripensarci, di non smettere, ma per me, quella vittoria, è stata la dimostrazione del fatto che dovevo chiudere la mia carriera lì. Un altro addio così, in questo modo, non lo avrei regalato mai più! Una conclusione perfetta e con la serenità nel cuore”.
Hai qualche rimpianto?
“Direi di no. Con la vittoria di Okinawa ho chiuso il cerchio; nonostante la rilevanza della corsa, che non è come una tappa al Giro d’Italia. Alla fine, mi ha ripagato molto per tutte le sconfitte e le delusioni che ho passato. Poi ho pensato che forse il mio percorso doveva andare proprio così. Perché alla fine c’è gente che ha vinto più di me e poi magari ha smesso dopo pochi anni, o ha avuto problemi, infortuni… e la carriera si è spenta in fretta. Quindi, forse, era questo il prezzo da pagare per fare dieci anni di professionismo, tra il perdere occasioni clamorose; io che poi sono sempre stato un corridore “da sacrificio”. Alla fine, sinceramente, è andata bene così, perché era quello il mio ruolo. Certo che senza quella vittoria, forse, avrei abbandonato con un po’ di amarezza. Perché, anche per un gregario, la soddisfazione di poter alzare le braccia al cielo, è qualcosa di importante; per la testa, l’orgoglio”.
In questi anni hai corso accanto a grandi campioni, da Basso, Nibali, e anche Peter Sagan. Qual è il tuo ricordo più bello?
“Con Peter ho vissuto dei momenti veramente divertenti. Quello più bello sicuramente è stato al Tour de France del 2013, quando abbiamo praticamente distrutto il gruppo per lui nel portarlo davanti, e fargli vincere la tappa. Mi ricordo ancora l’emozione di quel giorno, la nostra unione. Fu un bel momento, soprattutto per un gregario come me. È un qualcosa che ti rimane nel cuore”.
Sagan ha dominato su tanti terreni.
“Peter ha sempre delle grandi aspettative, ma non è mai facile rimanere costantemente ad altissimi livelli. Nonostante la sua giovane età, è già professionista da 10 anni. Lui in bici si annoia, ha bisogno di adrenalina continua, nuovi stimoli, anche mentalmente. Nel ciclismo devi essere uno con poche passioni, se non pedalare per ore e ore, faticare, mangiare il giusto. Alla fine, è la tipica vita da atleta. Vedrai che il giorno in cui Peter smetterà di correre su strada, andrà in mountain bike, o si darà al downhill. Se non altro. Ma adesso ha ancora tanti stimoli e un bel gruppo intorno a sé che lo aiuta”.
Com’è cambiato in questi anni il ciclismo?
“Anni fa, quando si scoprivano dei talenti, gli si dava una possibilità in più per crescere; adesso vengono “bruciati” prima. Se penso al ciclismo italiano, che ha poche squadre, vedo che c’è molta fretta nel farli emergere. Pensiamo al calcio, chi non va in Serie A può trovare posto in Serie B, C, e il professionista lo fa, anche se a basso livello, ma con uno stipendio. Nel ciclismo o emerge il campione, il talento che può durare, che è una garanzia, o dopo qualche anno smetti. Uno come me, adesso, farebbe davvero tanta fatica, nonostante la bravura, la generosità, ma non è abbastanza; anche perché i posti sono pochi. Io sono stato uno degli ultimi veri gregari, una figura che adesso devi veder vincere sin da giovane”.
Soffermandoci sul ciclismo italiano, il vero problema quindi è la mancanza di squadre?
“Parte tutto da qui. È un problema presente già nelle categorie giovanili, e quindi è logico che, se prima c’era più possibilità di trovare talenti, perché il bacino da cui pescare era formato da un bel numero di ragazzi, adesso che si è ridotto, la situazione cambia. Ci sono poche squadre a livello giovanile che investono tempo, volontà; e poi è tutto il sistema generale che non va. È logico che siamo in un’epoca di crisi in cui la gente ha bisogno di lavorare per vivere, e quindi va pagata, se vuoi che porti in giro gli atleti”.
Concludiamo parlando sempre dei giovani, su quale italiano punteresti?
“Ho un debole per Gianni Moscon. È un corridore che mi piace tantissimo. Punto tanto su di lui e mi piacerebbe vederlo magari con un ruolo da leader, anche se in Sky è un po’ “chiuso”. Ci sono stati degli episodi mediatici che lo hanno messo in cattiva luce, ma lo conosco, e posso dire che è un ragazzo d’oro. Tra gli altri nomi che mi vengono in mente, direi anche lo stesso Edoardo Affini, che è molto interessante, se non Matteo Moschetti”.
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Foto: Radu Razvan / Shutterstock.com