Formula 1

F1, Mondiale 2019: Mattia Binotto, il capro espiatorio della disorganizzazione in Ferrari

Pubblicato

il

6-0, palla al centro? In questo caso siamo ai limiti della manifesta superiorità. La situazione nel Mondiale di F1 2019 tra Mercedes e Ferrari è questa: le Frecce d’Argento dominano e continuano a vincere e il Cavallino Rampante è in cerca di un qualcosa che non c’è. La macchina non è performante come la W10. Le ragioni sono diverse: dall’assenza di carico aerodinamico sull’avantreno, passando per l’uso di una sospensione poco innovativa ed arrivando alle gomme 2019 che forse sono troppo “pro Frecce d’Argento”. Aspetto quest’ultimo da non sottovalutare visto che il progetto della monoposto deve essere sempre avviato con un certo anticipo. Tecnici ferraristi sorpresi dunque da queste Pirelli? Probabilmente sì.

Tutto giusto ma il problema è a monte e le controprestazioni della SF90 sono solo una conseguenza. A finire sul banco degli imputati è stato Mattia Binotto, nuovo Team Principal della Rossa. A Montecarlo, bisogna ammetterlo, la scuderia di Maranello l’ha combinata grossa e l’esclusione dal Q2 del monegasco Charles Leclerc grida vendetta, dal momento che poi la corsa domenicale del pilota del Principato è stata compromessa. Tuttavia, al di là della facile accusa rivolta nei confronti di Binotto, è evidente l’assenza della dirigenza della Rossa. La figura carismatica dell’ex presidente Sergio Marchionne manca come il pane e non è un caso che, dalla sua scomparsa, i risultati sono andati via via in peggioramento, con Sebastian Vettel che ha vinto l’ultimo GP a Spa del 2018 e il Cavallino Rampante salito sul gradino più alto del podio ad Austin (Stati Uniti) con il finlandese Kimi Raikkonen un anno fa.

Qualcosa che non va c’è e la defezione di una guida certa nel raggiungimento dell’obiettivo è lampante. L’assenza di una figura “racer” è il vero problema. Binotto è un ottimo tecnico ma non può farsi carico di diverse responsabilità in una struttura orizzontale del Reparto Corse dove si difetta in termini di personalità. La figura dell’ingegnere italo-svizzero è diventata quindi una specie di capro espiatorio rispetto alle deficienze strutturali di una scuderia che deve prima ritrovarsi in questo senso prima di poter pensare di essere competitiva sui circuiti. Di fatto il buco lasciato da Marchionne non è stato tappato e l’accoppiata John Elkann/Louis Carey Camilleri non ha raccolto nel migliore dei modi l’eredità del manager italo-canadese.

I riscontri in gara sono frutto di questa disorganizzazione interna, dentro la quale commettere degli errori è molto più facile.

 

[embedit snippet=”adsense-articolo”]

Clicca qui per mettere “Mi piace” alla nostra pagina Facebook
Clicca qui per iscriverti al nostro gruppo
Clicca qui per seguirci su Twitter

Foto: Shutterstock.com

Tu cosa ne pensi?

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Exit mobile version