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Il senso di Kobe, Gianna e di chi non c’è più

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Kobe Bryant non c’è più. Una realtà che tutta la pallacanestro ha appreso prima pensando “Ma è uno scherzo di cattivo gusto?”, poi con incredulità, quindi con ancora più sgomento aggiunto al dolore, perché nello schianto d’elicottero la famiglia Bryant ha perso anche Gianna Maria. E poi anche con un filo di rabbia, perché si è poi appreso che la TMZ, che ha rilanciato per prima la notizia, l’ha fatto senza che prima fossero avvertiti i familiari.

Il senso di quello che lascia Kobe su questa terra è dato dagli attestati di stima, dalle reazioni, dalle parole e dai ricordi. Ma anche dalla stessa vita di quello che, sui parquet di mezza America, tutti avevano conosciuto anche con il soprannome di Black Mamba. Una vita che non è stata lineare, ma che lo ha visto rialzarsi da momenti difficili, sia dentro che fuori dal campo. C’è un momento che Phil Jackson, suo storico allenatore ai Lakers in due diversi archi di tempo, ricorda in “Eleven Rings“, scritto con Hugh Delehanty ed edito in Italia dalla Libreria dello Sport, racconta a proposito del Kobe maturato, nell’annata 2008-2009, quella del quarto anello: “Un altro giocatore che in quel periodo fu molto più coinvolto nei destini della squadra fu Kobe. […] In passato aveva guidato principalmente con l’esempio: lavorava più duro di chiunque altro, raramente saltava una partita e si aspettava che i compagni giocassero al suo livello. Non era però quel tipo di leader capace di comunicare in maniera efficace per far remare tutti nella stessa direzione. Se parlava con i compagni, di solito era per dire “passami quella maledetta palla, non mi importa se mi raddoppiano”. Questo tipo di approccio, in genere, gli si ritorceva contro. […] Ma poi Kobe iniziò a cambiare. Si interessò di più alla squadra e ai compagni, li chiamava per invitarli a cena e a stare insieme in trasferta. Era come se fossero finalmente diventati suoi partner, invece che semplici comparse. Luke [Walton, che in passato faceva fatica a conciliare le richieste di Kobe e Jackson, N.d.R.] se ne accorse. All’improvviso Kobe gli si rivolgeva con toni molto più positivi: se Luke si scoraggiava per aver sbagliato tre tiri in fila, Kobe gli diceva ‘Dai bello, non prendertela per una str***ata. Io ne sbaglio tre in fila ogni c***o di partita. Continua a tirare e basta. Il prossimo andrà dentro‘”.

E qualche pagina dopo, a titolo conquistato contro gli Orlando Magic: “La cosa più appagante fu guardare Kobe trasformarsi da giocatore egoista ed esigente a leader che i compagni volevano seguire. Per riuscirci, Kobe aveva dovuto imparare a dare per avere. La leadership non è imporre agli altri la tua volontà. È l’arte del lasciare perdere“.

Il senso di Gianna Maria, per tutti Gigi, è direttamente legato al padre. Era lui ad aver voluto la Mamba Sports Academy, era lei che amava la pallacanestro, era lui che ne seguiva con felicità il percorso, era lei che aveva talento, era lui che conosceva e comprendeva il rispetto per il basket femminile. Un rispetto emerso, fra l’altro, appena cinque giorni fa: Kobe aveva affermato che alcune delle grandi leggende della WNBA, come Diana Taurasi, Elena Delle Donne e Maya Moore, avrebbero potuto giocare in NBA. E non era raro vederlo sugli spalti dello Staples Center con Gianna a vedere le partite delle Los Angeles Sparks con la figlia.

Alyssa Altobelli era compagna di squadra di Gigi. E il suo destino è stato forse ancor più tragico, perché nell’incidente non solo se n’è andata solo lei, ma anche i genitori, in sostanza la famiglia: la madre Keri e il padre John, rispettato e amato coach all’Orange Coast College, dove per ventisette anni ha visto succedersi giocatori tra le sue mani.

Conosceva Gianna anche Christina Mauser, che allenava alla Harbor Day School, che Gigi frequentava. Conoscevano i Bryant anche Sarah e Payton Chester, madre e figlia, anche loro della Contea di Orange, quella, per intenderci, dove si trova Anaheim. E poi c’era Ara Zobayan, che non era un pilota qualsiasi. Lui, in quelle condizioni, poteva volare. Aveva l’abilitazione a farlo, con un livello di preparazione superiore a quello dei normali piloti di simili velivoli. Ed era anche istruttore di volo.

Kobe Bryant, Gianna Maria Bryant, John Altobelli, Keri Altobelli, Alyssa Altobelli, Sarah Chester, Payton Chester, Christina Mauser, Ara Zobayan. Nove nomi, nove storie, cinque famiglie spezzate, un unico, tremendo destino, quello di una fatale domenica mattina di Calabasas, in California, in un elicottero immerso in pessime condizioni meteorologiche.

E viene da chiedersi, per un caso o forse no, se da qualche parte, lassù dove non si può più essere richiamati, l’accoglienza per il primo di questi nomi l’abbia fatta qualcuno che, quasi 27 anni fa, se ne andò anche lui in maniera troppo improvvisa: l’orgoglio di un intero Paese, la Croazia, e un altro uomo che Michael Jordan rispettava enormemente. Quell’uomo era Drazen Petrovic.

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federico.rossini@oasport.it

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Foto: LaPresse

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