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Omaggio a Kobe Bryant

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Sono passate ormai quasi 48 ore dalla notizia che ha sconvolto tutti gli appassionati di sport. Capita infatti che in una comune domenica sera di gennaio, in attesa di Napoli-Juventus o dei match della NBA, ti viene lanciata addosso brutalmente una notizia che ti trafigge come un missile, tanto improvvisa quanto feroce: Kobe Bryant non è più tra noi. È volato via in un modo beffardo, precipitando in elicottero insieme alla figlia Gianna Maria-Onore e ad altre sette persone. L’impatto è terrificante ma il seguito è anche peggio: ci pensi, ci ripensi, non riesci a capacitarti di come sia possibile, invochi la fake news. Perché no, Kobe non può essersene andato così. Kobe appartiene a quella ristretta cerchia di idoli dell’adolescenza, che hai sempre considerato alla stregua di semidei invincibili e immortali. Come può un banale incidente di elicottero uccidere l’eroe di mille nottate, un emblema della NBA, un gigante di questo meraviglioso sport? Può. Può perché questa è la vita, talvolta talmente crudele da essere incomprensibile.

E allora nasce in te quel desiderio di rivederlo in azione, di omaggiarlo attraverso le ennesime occhiate di meraviglia per quelle giocate che ti hanno fatto innamorare della palla a spicchi. Passi in rassegna tutto il meglio del repertorio, dagli 81 punti contro Toronto alla gara delle schiacciate, dal tiro libero con il tendine d’Achille rotto all’ultima partita in NBA. Vent’anni di Kobe Bryant, vent’anni di una leggenda, vent’anni di un supereroe. Ti capita sott’occhio la lista di tutti i record battuti, di tutti i trofei conquistati, di tutti i riconoscimenti ottenuti. È una lista chilometrica, ma non basta. Sono numeri freddi, distanti, insufficienti a descrivere quello che è stato Kobe per la nostra generazione. Un’icona, un totem, un modello, un amico. Sì, un amico. Quell’amico che ti spinge a non mollare, che ti sfida continuamente, che ti sprona a dare di più perché non bisogna accontentarsi mai, perché dipende tutto da noi, perché chi si ferma è perduto, nella pallacanestro come nella vita.

La mattina seguente rivedi la folla religiosamente riunita dinanzi allo Staples Center, la commozione dei giocatori sui palazzetti statunitensi, i 24 secondi sul cronometro lasciati scorrere in suo onore da Spurs e Raptors, le lacrime di Doc Rivers davanti alle telecamere, l’atteggiamento spaesato di LeBron James. Il mondo piange la sua scomparsa, ma Kobe resterà sempre con noi. Perché ogni volta che giocherai a pallacanestro, ogni volta che starai lavorando duramente per un nuovo traguardo, ogni volta che sentirai di non farcela, lo vedrai lì accanto a te, esattamente come prima, a sussurrarti “Non mollare” con quel suo italiano che riusciva sempre a strapparti un sorriso.

Rileggi la sua lettera di addio al basket. “Il mio cuore può reggere il peso, anche la mia mente, ma il mio corpo sa che è giunto il momento di salutarci. Ma va bene così. Sono pronto a lasciarti andare. Volevo che tu lo sapessi, così potremo assaporare meglio ogni momento che ci rimarrà da gustare insieme. Le cose belle e quelle brutte. Ci siamo dati tutto l’un l’altro. Ed entrambi sappiamo che, qualsiasi cosa farò, sarò sempre quel bambino con i calzettoni, il cestino della spazzatura nell’angolo e 5 secondi ancora sul cronometro, palla in mano.
5… 4… 3… 2… 1.” 
Scende la lacrimuccia. Ciao Kobe, grazie di tutto.

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antonio.lucia@oasport.it

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Foto: LaPresse

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